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La natura del territorio ha imposto, a seconda dei casi, interventi "morbidi" o "rigidi": sono questi ultimi ad essere leggibili ancora oggi.
L' ANTICHITÀ E L'AMBIENTE
di Rosanna Mollo
In ogni epoca l'uomo ha utilizzato l'habitat naturale, sforzandosi di modificarlo e di adattarlo ad esigenze di tipo abitativo o relazionale, economico o di semplice sussistenza.
Nella preistoria la sottomissione alla natura appare pressoché totale; soltanto nel corso della protostoria si verificano i primi tentativi di trasformare il territorio in rapporto alle risorse e alla produttività. Anche le prime forme di urbanizzazione, basate essenzialmente su un'economia agricola di tipo estensivo, non hanno favorito lo sviluppo di grandi agglomerati e apportato incisive trasformazioni.
Nell'antichità classica, nell'ambito di un'urbanizzazione pianificata, il problema dell'inserimento di un nucleo urbano nel paesaggio naturale comportava, in ogni caso, e sia pure, talora inconsciamente, una violenza al paesaggio naturale, accentuata dalla geometrizzazione degli spazi.
Soltanto l'urbanistica dell'Ellenismo è riuscita a modellare sul terreno il percorso delle cinte murarie, sottolineando con l'andamento irregolare delle strutture, anche da un punto di vista estetico, l'adattamento alla geomorfologia dei siti. Va comunque sottolineato che la ridotta entità delle città antiche ha comunque limitato di molto la portata dell'impatto del costruito sull'ambiente paesistico.
Il processo di urbanizzazione della Valle d'Aosta avviato in età romana a seguito della conquista, secondo una programmazione da tempo sperimentata, ha comportato importanti interventi di sistemazione del territorio quali l'impianto della città di Augusta Praetoria, l'organizzazione fondiaria e il tracciamento della rete viaria.
Le opere programmatiche di strutturazione, orientate secundum caelum e basate su principi di razionale sfruttamento del territorio, rivelano un profondo senso di adattamento all'ambiente e il rispetto della natura e delle sue leggi: si sono così creati un equilibrio ed un'armonia risolti per l'intervento umano in chiave di economia e funzionalità. Anche se la città si imponeva dal punto di vista funzionale per la geometria della cinta muraria e per la linearità delle strade intramurane, regolarmente ripartite ed estrinsecate dalla marcata volumetria delle torri, l'insieme urbano non poteva essere considerato indipendentemente dallo stesso paesaggio geografico e dai condizionamenti ambientali di natura orografica ed idrografica. L'architettura pubblica, caratterizzata dalla funzionalità, dalla durevolezza nel tempo e dall'imponenza delle masse degli edifici monumentali era comunque subordinata all'organismo urbano, definito dalle mura e dallo spazio aperto circostante. Anche il tracciamento dei limites centuriali e le relative opere di bonifica, che sicuramente interessarono la conca di Aosta, hanno profondamente innovato la situazione ambientale precedente e "costruito" il paesaggio, proiettando sul territorio periurbano lo stesso principio di ordinata suddivisione dello spazio che presiedeva alla strutturazione della città. Per quanto riguarda l'ambientazione delle costruzioni nel paesaggio, le ville suburbane e le ville rustiche - organismi estensivi isolati - si inserivano perentoriamente sulle pendici collinari a settentrione della città o nell'aperto paesaggio della campagna, opponendo alla rigida massa costruttiva il verde volontariamente costruito - l'hortus - in un rapporto di reciprocità fra paesaggio interno e paesaggio esterno.
Sul piano generale, invece, l'intervento di pianificazione della via publica - la cosiddetta via delle Gallie -una strada di grande comunicazione transalpina, ha inciso profondamente sul territorio per l'accentuazione del costruito: la particolare configurazione geomorfologica della Valle d'Aosta ha condizionato l'andamento del tracciato ed imposto un percorso artificiale che ha comportato la necessità di imponenti opere viarie di altissima ingegneria, costruite tra impervie difficoltà ed ostacoli naturali. Il tracciato evita poi, per quanto possibile, il breve piano di fondovalle per mantenersi in costa, ad una quota minima tale da garantire in ogni caso dal pericolo delle alluvioni della Dora Baltea.
Da Pont-Saint-Martin agli alti valichi alpini la strada saliva progressivamente per lo più aderente ai fianchi della montagna e procedeva per segmenti rettilinei, a tratti talora brevissimi, raccordati ad angolo. Là, ove possibile, la strada si adattava preferibilmente al terreno con terrazzamenti e riporti "morbidi"; il superamento delle asperità dei luoghi ha in ogni caso stimolato l'ingegnosità antica: nei punti più difficili ed impervi si assiste ad una serie delle più diverse opere di ingegneria stradale, applicate separate od associate per consentire il transito. Le concentrazioni maggiori di queste opere di carattere funzionale si trovano nei tratti compresi fra Donnas e Bard e tra Villeneuve e Runaz, ove a tagli in roccia si associano viadotti su sostruzioni o su arcate e ponticelli vari. Tra Donnas e Bard, ove la Dora si era scavata il letto tra le rocce e l'interferenza con il fiume era pressoché inevitabile, si è proceduto con immane lavoro ad intagliare la via per un tratto di 222 metri e per un'altezza di 12,75 metri nella durissima roccia e a rialzarne il piano rotabile mediante ciclopiche sostruzioni. Ad Avise la presenza di una forra montana molto stretta, profondamente incisa sulla Dora Baltea e delimitata da scarpate scoscese molto alte (anche oltre 60 metri con tratti subverticali che sbarravano il fondo valle, ha condizionato il tracciamento della strada ed imposto un percorso scavato nella roccia in posizione nettamente sopraelevata sull'alveo della Dora Baltea (circa 50 metri), grandiosamente sostituito a valle con imponenti opere di rafforzamento, come prova la significativa attestazione dei toponimi "Pierri Taillée" e "Tour des voûtes".
Il prospetto del corpo sostruttivo parzialmente distrutto e pesantemente ripreso da interventi posteriori, era scandito, nel punto di maggior sollecitazione ed accidentalità della roccia da una serie di arcate di contenimento cieche ravvicinate, di diversa grandezza e profondità, inquadrate da contrafforti risegati e chiuse da semplici volte a botte ribassata con sovrastrutture interne voltate, reciprocamente contraffortate e giacenti su piani diversi, con uno sviluppo verticali anche notevole.
In questa ottica di grandiosità e in questo particolare ambiente montano anche i ponti si inserivano nel paesaggio con la tipologia del ponte-viadotto: in connessione con la spalla in opera poligonale il ponte di Pont-Saint-Martin si presenta come una monumentale arcata aperta in un poderoso viadotto rilevato che si uniformava alla geomorfologia del sito. Duplice era quindi l'atteggiamento dei costruttori: da un punto di vista economico utilizzare al massimo le situazioni naturali e da un punto di vista funzionale superare con grandissima capacità tecnica ostacoli apparentemente insormontabili. Ciò ha comportato la necessità di opere viarie imponenti che hanno permesso alla strada, in prospettiva, di assolvere a lungo e senza interruzioni al proprio compito.
Questa situazione ha favorito nel tempo la perdita o la sovrapposizione del tracciato là dove era "morbido" e la conservazione delle opere "rigide"; queste testimonianze - come dei segnavia - ci permettono oggi di ricostruire per interpolazione, con buona approssimazione, il percorso originario della strada romana anche dove se ne è persa ogni traccia.
   
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