TERRITORIO FRAGILE
L'alluvione dello scorso ottobre suggerisce alcuni spunti di riflessione su come siamo tutti personalmente implicati nell'evento.
PENSIERINI
di Flaminia Montanari
Un esempio di erosione da parte delle acque della Dora in pienaPur se le piogge di ottobre hanno avuto una violenza e una continuità che mai avevamo conosciuto, non tutto può comunque essere ridotto alla pura fatalità. Se è vero che esse sono conseguenza del graduale riscaldamento della terra e che almeno una parte della responsabilità di questo aumento della temperatura può essere imputato all'inquinamento atmosferico, allora dobbiamo riconoscere che all'inquinamento contribuiamo tutti, chi più chi meno, attraverso tutte le forme dei nostri consumi: dagli sprechi nel riscaldamento (al solo scopo di vivere in maglietta di cotone anche in inverno), all'uso eccessivo dell'automobile; e se è vero che le industrie inquinano ancora di più, è anche vero che esse producono beni per rispondere alla nostra domanda. Della pioggia quindi, causa prima dell'alluvione, non possiamo non sentirci per lo meno corresponsabili, ciascuno per una sua piccolissima parte ma molti pochi fanno un molto.
Questo significa che dobbiamo prendere velocemente coscienza della necessità di ridurre le emissioni in atmosfera; e se è compito delle Amministrazioni pubbliche mettere a punto un piano per la promozione dell'energia pulita e per la razionalizzazione del trasporto, è altrettanto vero che senza la partecipazione attiva di ciascuno di noi nel quotidiano, nel ridurre gli sprechi energetici e nel limitare all'indispensabile i mezzi di trasporto privati, nessuna politica potrà dare dei risultati positivi.

Alluvione 2000 a DonnasSe comunque la pioggia non era evitabile, una parte del danno che essa ha prodotto avrebbe potuto essere evitato. Troppe delle nostre opere sono state costruite senza tenere sufficiente conto dei rischi naturali, in parte per un'eccessiva fiducia nella nostra capacità tecnica, in parte proprio per la scarsa prevedibilità connaturata con il concetto stesso di rischio. Ma la montagna è per la sua natura stessa un territorio fragile ed instabile, in cui non esistono praticamente aree che non comportino qualche tipo di rischio più o meno esplicito. Quelle aree sono state edificate perché occorrevano case, depositi, officine, uffici: la pressante domanda di costruzioni - fenomeno reale e quantificabile - ha fatto passare in secondo piano la contropartita del rischio, solo ipotetico e difficilmente misurabile. Tutti ammettono implicitamente che qualcosa potrebbe accadere, ma ognuno rifiuta di pensare che potrebbe accadere proprio a lui. Ciascuno dovrebbe chiedersi ora in coscienza se non ha anche fatto il possibile affinché il suo terreno fosse inserito come area edificabile nel piano regolatore.

A memoria d'uomo nessuno ricordava eventi di questo tipo; e in ogni caso, le robuste arginature dei torrenti ci davano un senso di sicurezza. Ma la memoria dell'uomo è labile e l'alluvione del '93 era un brutto incidente già dimenticato. Ci sembra inammissibile che una Natura addomesticata come quella cui siamo ormai abituati, una Natura che la cultura urbana ha mitizzato come il regno dell'ordine spontaneo e del bello in sé, abbia mostrato invece il suo volto di caos primigenio e di forza terrificante e distruttrice. Ci sentiamo traditi da colei che fino a pochi mesi fa consideravamo madre e alleata. La furia dell'acqua ha mandato all'aria in poche ore le poderose arginature, costate anni di lavoro; la natura ha giocato con noi con la stessa indifferenza con cui da bambini abbiamo giocato a frugare con un bastoncino dentro un formicaio.

Di fronte alla natura l'uomo è solo uno sperimentatore, e come tale non deve avere né pregiudizi né certezze: forse una parte non minore di colpa va attribuita allora all'atteggiamento di presuntuosa fiducia con cui consideriamo la potenza degli strumenti tecnici di cui la nostra civiltà dispone. Ci offende, dopo esserci sentiti dei giganti, scoprire di essere soltanto formiche.

L'alluvione ci ha improvvisamente aperto gli occhi sui guai altrui. Chi di noi è stato più fortunato non ha potuto fare a meno di sentirsi quasi in colpa di fronte a chi ha perso le persone care, la casa, i suoi beni. Abbiamo sentito che solo per caso non è toccato a noi, che siamo scampati senza merito; ci siamo per un momento messi nei panni degli altri, si è creato un forte e tangibile sentimento di solidarietà umana.
Passata l'emergenza, il rischio è di tornare nel proprio comodo guscio quotidiano e di archiviare i brutti ricordi. Ma questa alluvione ci ha mostrato aspetti della convivenza umana che forse avevamo dimenticati: tra tutti per primo il valore della piccola dimensione sociale, della coesione e della conoscenza reciproca. Nel momento del pericolo, le comunità piccole o comunque socialmente coese sono state più pronte ad intervenire, più solidali, più efficienti. I cittadini si sono sentiti coinvolti in prima persona, hanno vigilato a turno lungo i torrenti, hanno messo a disposizione i mezzi e le braccia, hanno ospitato in casa i vicini. Nelle zone dove prevale l'effetto cultura urbana, invece, molti si sono spinti sui ponti a vedere lo spettacolo della furia delle acque, mettendosi inutilmente a rischio e a volte intralciando persino chi lavorava; forse alcuni hanno telefonato ai servizi pubblici; tutti hanno atteso che la macchina sociale si muovesse in loro difesa. A parte l'oggettiva difficoltà di fare qualsiasi cosa, il sentimento generale è stato un sentimento di attesa: che qualcuno intervenisse, che l'amministrazione pubblica facesse qualcosa; e se anche qualcuno avesse voluto mettersi a disposizione, a chi rivolgersi e cosa fare? Il cittadino si è sentito privo di punti di riferimento. La piccola dimensione sociale ha innegabili svantaggi, ma ha sicuramente dimostrato in questa occasione di avere anche dei grandi vantaggi: è quindi una risorsa che dovremmo tenere in maggior conto, un patrimonio che dopo questa esperienza potremmo pensare di rivalutare.

Oltre alla piccola dimensione sociale ha avuto però un peso decisivo il fatto che le piccole comunità fossero nella maggior parte dei casi dei comuni di montagna. In montagna il concetto del rischio è presente nel quotidiano; forse la stessa vicinanza e la maggiore possibilità di osservazione dei fenomeni naturali, la intrinseca fragilità dell'ambiente ne fanno percepire in modo diretto la celata minaccia. Il rischio, cioè, fa parte della cultura locale; per questo motivo gli abitanti sono più vigili e più capaci di riconoscere i segnali premonitori. Dove c'è un forte radicamento inoltre c'è anche una maggiore conoscenza dei fenomeni storici, di quella fondamentale conoscenza del territorio che si tramandava tradizionalmente tra le generazioni contadine nei ricordi degli anziani, nei racconti delle veglie. Così in molti piccoli comuni gli abitanti hanno saputo immediatamente individuare i punti critici, le zone a rischio, hanno saputo muoversi subito nel modo più efficace.
Degli amici che vivono in uno degli abitati più alti della Valle mi raccontavano che quando erano bambini in caso di nevicate eccezionali andavano a dormire dai vicini, perchè la loro casa era al limite di influenza del soffio della valanga; era una casa del '700, ma non si sa mai. Così anche in questa alluvione, il forte odore di terra o il fatto che l'acqua del torrente fosse improvvisamente calata erano segni che avremmo dovuto saper cogliere in tempo. Nessuna macchina sociale potrà mai sostituire la cultura territoriale, unica vera condizione per poter vivere in montagna. La montagna è una scelta, ed implica la condivisione di una cultura; chi non si sente di condividerla resterà sempre un uomo di pianura.

   
Pagina a cura dell'Assessorato territorio, ambiente e opere pubbliche © 2024 Regione Autonoma Valle d'Aosta
Condizioni di utilizzo | Crediti | Contatti | Segnala un errore