TERRITOIRE DE TOUS
La cultura contemporanea ricerca un nuovo rapporto tra la popolazione e il suo ambiente rivalutando i territori locali.
PETITE PATRIE
di Flaminia Montanari
Il villaggio di Rochefort, ad Arvier.Questo giro di secolo, o meglio di millennio, ha veramente segnato il passaggio - ancora non del tutto compiuto - da un’epoca ad un’altra. Si sono chiusi con il novecento più di cinquecento anni di primato della Ragione - un processo iniziato con il Rinascimento e sfociato nell’Illuminismo, che vedeva e poneva l’Uomo al centro dell’universo e legittimava la ragione a diventarne l’organizzatrice. Il binomio Uomo/Natura era concepito come la lotta tra due poli, di cui il primo doveva dominare il secondo; la ragione e la scienza dovevano esserne le armi di conquista.
La rivoluzione culturale che si è operata nell’arco del secolo passato ha invece al centro la nascita del concetto di ambiente, che ha ricondotto l’uomo e la sua ragione all’interno dei processi della natura. La coscienza che ogni osservatore in realtà interferisce con l’osservato e che quindi non è possibile una conoscenza oggettiva dei fenomeni - che in un primo momento ha messo in crisi il positivismo ottocentesco determinando il crollo di ogni nostra certezza e possibilità di previsione - ha aperto d’altra parte la nuova prospettiva di una conoscenza dialogica, il cui oggetto non è più un’entità indipendente da osservare e classificare ma è il rapporto stesso con l’altro-da-sé conosciuto attraverso la sua risposta. Il concetto di ambiente come insieme di individui legati da una complessa rete di relazioni che ne regola i rapporti in un meccanismo di azione/risposta ha inoltre capovolto il modo in cui oggi guardiamo alla teoria darwiniana, offrendo una via d’uscita alla deriva individualistica - frutto di una visione meccanicistica della lotta per la vita – attraverso la centralità del concetto di comunicazione. Gli individui non sono semplicemente in conflitto tra loro per la sopravvivenza, ma anzi più spesso stabiliscono tra loro delle alleanze simbiotiche che migliorano le chances delle singole specie, costituendo complessi equilibri dinamici. Il concetto di ambiente è la chiave cioè di una rivoluzione culturale che legge come ricerca di equilibri il continuo scambio di informazioni che interviene tra i diversi soggetti, e ne determina sempre nuovi assetti. Ad ogni azione segue una reazione di risposta, che agisce come un messaggio capace a sua volta di indurre una modificazione dell’agente: in questo processo continuo di feed-back si colloca, non differentemente da quella di tutti gli altri agenti, anche l’attività umana nella costruzione/distruzione dell’ambiente di cui siamo parte. La componente umana è cioè inserita nel processo, perde il suo status di osservatore esterno, diventa parte integrante dell’ambiente che vive e trasforma.

Un particolare del municipio di Aosta.Una conseguenza di questa nuova cultura è la rivalutazione del rapporto tra la popolazione e il territorio che essa abita. Dopo mezzo secolo di enfasi sull’egemonia della cultura urbana, vista come crogiolo di nuova citadinanza e superamento dei localismi, la conclamata fuga dalle città e l’esplosione delle banlieues aprono improvvisamente il nostro sguardo sulle conseguenze dello sradicamento. In questi processi infatti emerge chiaramente che non sono solo i legami territoriali a perdersi, ma i legami sociali che sul territorio e nel territorio trovano la loro origine e motivazione. E insieme a questi legami – costruiti nei secoli da una società contadina, che con la terra aveva un dialogo molto più stretto, proprio nel senso che ogni azione trovava una sua precisa risposta nel prodotto dei campi e nella sicurezza dell’ambiente – si sono perdute le organizzazioni sociali volte al mantenimento degli equilibri ambientali: i lavori agrari in comune, le corvées, le consorterie dei boschi e delle acque; e con esse - e forse ancora più di queste - si sono perduti anche i momenti di comunicazione sociale: le feste che segnavano il raccogliersi delle comunità nei momenti importanti dell’anno agricolo, i riti religiosi che trasferivano al Cielo la gestione di ciò su cui l’uomo non poteva disporre – la pioggia o il sole, la neve o la grandine, la salvaguardia dagli insetti nocivi o dalle malattie delle piante.
Se è fisiologico che tutto questo sia andato perduto insieme alla società che l’ha espresso, non è però normale che la nostra società non abbia tradotto in forme proprie i nuovi bisogni e i nuovi rapporti col proprio spazio.
Manifestazione transfrontaliera al colle del Gran San Bernardo.Il territorio si è diviso nella nostra cultura nei due campi del privato e del pubblico, dove il primo attiene ad una invalicabile sfera individuale e il secondo è diventato esclusivo appannaggio delle pubbliche amministrazioni, dove il cittadino usa mettere il naso solo quando c’è qualche cosa da criticare o che interferisce con la sfera privata, come una tassa o un esproprio. Manca cioè la coscienza del legame tra la comunità umana e lo spazio in cui vive – quel legame che riassumiamo col termine di identità locale. Troppo spesso e sempre più questo termine viene usato nelle campagne pubblicitarie e nel marketing dei prodotti tipici in maniera impropria, per aggiungere caratterizzazione alla merce e per suggerire al turista che consumare un certo prodotto o soggiornare in una località gli farà recuperare quel rapporto con la natura e quelle radici di cui la vita urbana lo ha espropriato. Ma l’identità locale non può essere ridotta all’immagine del maestro di sci, della ragazza in costume o del piatto di formaggi, né noi ci identifichiamo in questi stereotipi – anzi spesso questa immagine di noi che viene offerta all’esterno ci dà un senso di fastidio, come se chi ci guarda dall’esterno potesse considerarci alla stregua di un pezzo di fontina. L’identità locale nasce da un sentimento di appartenenza ad una comunità e di identificazione di essa con un preciso spazio. Rifacendoci al concetto di ambiente come comunicazione e interdipendenza, potremmo dire che l’identità locale coincide con la presa di coscienza di queste relazioni incrociate tra popolazione e territorio: e questa presa di coscienza non può che renderci attivi, cioè partecipi della costruzione comune delle scelte e delle decisioni sulle trasformazioni che, nel bene o nel male, induciamo sul nostro territorio nell’uso delle sue risorse.

Uno sguardo sul territorio urbanizzato della bassa Valle d’Aosta.Pétite Patrie, preso a titolo di questa nuova serie della rivista, vuole richiamarci a questa appartenenza attiva, esaminando i diversi aspetti dello stretto rapporto tra componente sociale e componente territoriale. In quest’ottica, abbiamo dedicato il primo numero alla partecipazione: un termine oggi sempre più abusato, che richiede invece di essere compreso perché nasconde una problematica complessa. Innanzi tutto è bene precisare che la partecipazione non è ricerca del consenso, che sono due operazioni che spesso vengono confuse.
La ricerca del consenso è una comunicazione a senso unico: un’iniziativa o un progetto vengono sottoposti agli utenti sia per informarli sia per accogliere eventuali osservazioni e suggerimenti, che comunque potranno influire sugli aspetti operativi, mentre per quanto riguarda la soluzione individuata non esiste alternativa, se non un eventuale rigetto in toto della proposta. La risposta attesa è quindi di regola affermativa, lasciando ai soggetti portatori di interessi la possibilità di migliorare quegli aspetti su cui i loro interessi si appuntano, ma lasciando loro sostanzialmente un ruolo passivo o collaborativo, ma comunque di mera reazione alla sollecitazione. La ricerca del consenso è da porsi quindi sul piano dell’informazione, più che su quello della comunicazione.
La partecipazione invece è il processo stesso di costruzione delle decisioni, e quindi è basata sulla comunicazione intesa come meccanismo di feedback, che regola i rapporti tra i soggetti per arrivare ad una soluzione condivisa fin dalla partenza. Caratteristica della partecipazione è di partire dall’individuazione ed espressione dei bisogni (fase solo apparentemente banale, perché in realtà i nostri bisogni reali sono spesso mascherati da mille altri problemi devianti), per passare poi all’analisi delle potenzialità e risorse, all’individuazione degli obiettivi condivisi e, solo in ultima battuta, all’individuazione delle soluzioni e alla valutazione delle alternative.
Si potrebbe, attraverso le due metodologie, arrivare anche alle stesse soluzioni: ciò non significa che i due percorsi si equivalgano, perché nel primo caso si può ottenere il consenso ma non garantire l’efficacia, se gli attori non si sentono sufficientemente coinvolti dalle decisioni; mentre nel secondo caso il processo stesso di crescita comune porterà al coinvolgimento degli attori, che diventeranno di fatto gli attuatori delle decisioni. La partecipazione richiede però due condizioni: tempi lunghi, perché non sono ammesse scorciatoie (che ricondurrebbero di fatto ad un’operazione di consenso) e sentimento identitario. Non esiste partecipazione se non esiste identità, cioè come detto in inizio una possibilità di identificazione in un territorio di riferimento (sia esso un territorio fisico o mentale, come l’Ente o l’Azienda) di cui sentirsi parte vitale e sul quale proiettare la propria visione del futuro. Ed è proprio il territorio che produce la “risposta” di feedback che servirà a sua volta a monitorare ed eventualmente a correggere le decisioni, rendendole sempre più efficaci.
Il processo partecipativo inoltre stimola la creatività e l’imprenditività dei singoli e ne valorizza il potenziale, crea integrazione tra le diverse abilità e attitudini personali, costruisce sinergie tra le diverse componenti sociali: innesca cioè processi virtuosi di sviluppo locale.

Bisogna però evitare di fare della partecipazione una bacchetta magica, e di pensare che possa essere applicata a qualunque processo decisionale. Si tratta di una metodologia, e come tale è uno strumento da utilizzare nei limiti della sua effettiva utilità. Non si possono utilizzare processi partecipativi per prendere decisioni di tipo tecnico o che richiedano tempi brevi, e neppure per decisioni nelle quali intervengano forti componenti emozionali; questi elementi provocherebbero una distorsione dell’analisi iniziale e un aggravio di tempi tale da compromettere i risultati. In questi casi la decisione non può che essere delegata all’organo - tecnico, politico o amministrativo - adatto a garantire la congruenza dei tempi e dei mezzi all’entità e all’urgenza dei problemi da risolvere. Lo spazio più proprio della partecipazione è invece quello dello sviluppo locale, cioè di quelle scelte di medio-lungo periodo che saldano la popolazione e il suo spazio in un’unica immagine identitaria, in una visione di prospettiva, che orienta e guida nelle scelte successive tanto l’azione dei singoli che quella della comunità locale attraverso i suoi organi istituzionali.
Per la Valle d’Aosta il passaggio del millennio ha coinciso, con l’alluvione, con un momento obbligato di presa di coscienza dei problemi territoriali che ha inciso in maniera profonda sul nostro modo di rapportarci al territorio, sulla nostra cultura. Siamo improvvisamente diventati consapevoli della fragilità dell’ambiente e della necessità di ritrovare da un lato un rapporto meno prevaricatore col territorio, che rispetti le sue caratteristiche e le sue intrinseche debolezze, e dall’altro una solidarietà sociale in grado di far fronte agli incerti connaturati ad una situazione di montagna. L’alluvione in un certo modo ha forzato le nostre tappe per farci entrare in una cultura contemporanea, basata proprio sulla comunicazione: e la comunicazione è lo strumento necessario per entrare nella cultura del progetto.
   
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