INSEDIAMENTO TRADIZIONALE
L'agricoltura come elemento del paesaggio e come strumento di conservazione dell'ambiente si misura dalla capacità di coltivare le buone terre. Scendere sotto l'attuale superficie coltivata sarebbe una sconfitta.
TERRE DA COLTIVARE
di Emanuele Dupont
Vista panoramica della media Valtournenche: La Magdeleine in primo piano e Torgnon sullo sfondo.Probabilmente la generazione nata attorno agli anni cinquanta del XX secolo è stata la prima a non subire il dramma della guerra, almeno all'interno del proprio Paese.
È anche quella che ha vissuto il cambiamento più profondo e più rapido nella Storia.
Due situazioni, che riferisco alle mie memorie personali, rendono meglio di qualsiasi elaborazione teorica il senso di tale cambiamento.
Da bambino, il villaggio era organizzato in modo da garantire nella migliore delle condizioni possibili la vita personale, famigliare e sociale. L'attenzione maggiore era per le risorse, che davano garanzia di sicurezza nell'alternarsi delle stagioni: acqua, terra, fieno, cereali, fave, patate, legna....
La terra, soprattutto, era considerata una ricchezza da conquistare e da mantenere. Parlando di terra intendiamo quella coltivabile, in qualche modo; o, almeno, utilizzabile a fini agricoli. Dei muretti a secco, del disboscamento ai fini del pascolo, della fase eroica dell'agricoltura di sostentamento, dell'epopea dei rû, si è scritto molto. Qui basta ricordare un termine del patois che può riassumere quella tecnologia. Rebarmé vuol dire: "remonter au sommet d'un champ en pente la terre qui s'est écoulée au fond" (Chenal-Vauterin); scherzi della gravità e fatica manuale dell'uomo per garantirsi la terra da coltivare.
Importante era anche l'erba, per pascolare il bestiame e per mantenerlo durante i mesi in cui il terreno è gelato. L'erba come una ricchezza da difendere: prati cintati... impensabile calpestare i prati prima dei fieni... necessità di portare in fienile fino all'ultimo filo d'erba…
Vengo alla prima situazione. Ricordo l'atteggiamento, che per noi è facile giudicare come maniacale, della signora che pretendeva che le capre portate al pascolo dai vicini indossassero la museruola (sic!) quando transitavano sul sentiero che costeggiava il suo prato. A volte, poco più di quarant'anni dopo e in quello stesso villaggio, mentre passo il tosaerba sul prato attorno allo chalet, ripenso con partecipazione a quel tempo. Spero, inoltre, che nonno Clément, mentre svuoto il serbatoio dell'erba macinata, sia impegnato a guardare qualche altra scena in giro per il globo.
Il secondo episodio, vede dei bambini tesi sul loro quaderno a far scorrere un pennino, abbastanza consumato, intriso d'inchiostro, cercando di evitare le perfide macchie, intenti a dare forma accettabile a vocali e consonanti e, soprattutto, a risparmiare carta.
Anche a questo penso, ogni tanto, mentre invio messaggi di posta elettronica, per risparmiare carta e, intanto, la stampante del computer vomita pagine e pagine di un ennesimo documento strategico, impeccabilmente impaginato nel formato A4.
Non voglio commentare o descrivere le varie fasi di questo stordente stravolgimento, ma esaminare l'atteggiamento con il quale questo è stato avvertito negli ultimi quarant'anni.
Serve, quest'esame, anche per esorcizzare due atteggiamenti opposti ed altrettanto inutili: il rimpianto del passato e l'esaltazione del presente.

Vista del conoide di Fénis prima dell'alluvione del 2000.Gli anni sessanta hanno visto il definitivo crollo della civiltà contadina, l'esodo rurale e la creazione delle metropoli sotto la poderosa spinta della tecnologia moderna. Il benessere crescente e le molte occasioni di lavoro in tante professioni nuove non permettevano di occuparsi o di preoccuparsi del mondo rurale.
Al massimo tale declino era descritto e misurato con distacco: numero di villaggi di montagna abbandonati, piramide delle età invertita, percentuali residue di agricoltori. Vi fu anche una corrente di pensiero che si affrettò a dichiarare conclusa e sepolta la civiltà rurale in generale e quella di montagna in particolare: basta ricordare i volumi pubblicati nella collana "Il mondo dei vinti".
Una liberazione insomma: l'umanità volta pagina! Siamo - peraltro - nell'era dell'acquario, che diamine!
Però, abbastanza presto, ci si accorge che strada facendo qualche cosa si è perso.
In nome della produttività, la nuova agricoltura industriale costruita in meno di venti anni grazie alla genetica, alla chimica e alla meccanica ha puntato tutto su poche varietà di cereali, su pochissime razze animali e su un numero limitato di prodotti opportunamente standardizzati. Per strada si è persa una parte di variabilità genetica, di prodotti tradizionali e una parte non trascurabile di terre coltivate.
Proprio la questione ambientale ha obbligato tutti, amministratori e tecnici, a riconsiderare gli effetti dell'abbandono della montagna e della sua agricoltura.
In realtà, agli inizi degli anni ottanta non si era ancora ritornati all'uomo, all'uomo sociale con la cultura della montagna; si pensava, infatti, di poter riprendere in mano il dissesto ambientale costruendo argini, spostando il percorso delle frane e delle valanghe, meccanizzando l'agricoltura, facendo il rimboschimento ovunque.
Da noi in Valle le cose sono state attenuate sia per la notevole attenzione rivolta al mondo agricolo da parte delle istituzioni , sia dal radicato rapporto della popolazione con il proprio territorio.
Oggi, nel senso degli ultimi dieci anni, si sta cercando di elaborare un nuovo assetto, una nuova presenza, una nuova collocazione, sociale ed economica, per il mondo rurale e per il mondo della montagna. Dove la nozione di nuovo deve tenere conto di tutti gli elementi e dell'evoluzione dei concetti che abbiamo tentato di individuare.
Importante è, e sarà, chiarire bene le priorità, stabilire la gerarchia dei valori.
I nuovi riferimenti sono contenuti nelle ben note e recenti formule: biodiversità, sostenibilità, multifunzionalità, protezione dell'ambiente, sviluppo rurale.
Non sono ancora concetti definiti nel dettaglio, né si può dire che siano noti alla maggior parte dell'opinione pubblica; sono concetti in via d'elaborazione e che trovano solo in questi anni le prime applicazioni.
Allo stato attuale delle riflessioni, sostenibilità significa, almeno per noi in montagna, una gestione responsabile del territorio e delle sue risorse, per ricavarne i benefici economici per le popolazioni locali, nel rispetto delle popolazioni che vivono a valle e tenuto conto delle necessità dei nostri figli e delle generazioni future.
"I paesaggi colturali rispecchiano lo sviluppo economico, ecologico e culturale delle Regioni d'Europa, costituiscono il fondamento dell'agricoltura e della silvicoltura, nonchè la base per un tipo di coltivazione quanto più possibile sostenibile, e presentano grande importanza sia sul piano della diversità biologica che per gli abitanti delle regioni e il turismo". E ancora "il potenziale turistico rappresentato da buone condizioni ambientali delle aree rurali permette la diversificazione delle attività economiche; è necessario a tal fine un approccio integrato e sostenibile per soddisfare le esigenze qualitative dei turisti, migliorare la situazione delle imprese e delle collettività locali e salvaguardare il patrimonio naturale (paesaggio e biodiversità) e culturale (architettura, attività tradizionali e artigianali)". [Fonte: "Ulteriore sviluppo della politica ambientale e creazione di un'Unione ecologica", Comitato delle Regioni, luglio 1997].
Sono concetti e riflessioni che noi in Valle coltiviamo da tanto tempo: non ci sembra vero leggerli nero su bianco sulle Gazzette Ufficiali della Comunità Europea.
Più che la soddisfazione per aver elaborato quelle idee ancor prima delle istanze comunitarie, ci deve però cogliere la preoccupazione di dare concreta e operativa applicazione a tali orientamenti.
Importante e prioritario è lo sforzo per non perdere altro terreno coltivato: limitare il bosco, le costruzioni, l'incolto.
Gli strumenti di programmazione regionale vanno in questo senso: Piano di Sviluppo Rurale, soprattutto per il prossimo periodo di programmazione 2007-2013; Piano di Tutela delle Acque, che riconosce priorità agli usi irrigui dopo quelli potabili; Piano Territoriale Paesistico.
Il lavoro di adeguamento dei Piani Regolatori Comunali a quest'ultimo strumento assume particolare rilevanza rispetto agli argomenti che stiamo discutendo: in modo esplicito si chiede alle amministrazioni comunali di disegnare i contorni dei pascoli e delle buone terre coltivabili.
Scendere sotto all'attuale superficie coltivata non è auspicabile; significherebbe inoltre il fallimento di tanti anni di politica regionale di sostegno, importante e convinto, all'agricoltura. È anzi importante recuperare una parte delle superfici ora abbandonate o sottoutilizzate.
La definizione di buone terre coltivabili contenuta nel PTP non è un fatto statico: ciò che era indispensabile all'agricoltura di sostentamento all'inizio del '900 oggi non lo è più, perché troppe cose sono cambiate. Allo stesso modo però non possono essere abbandonate superfici fertili, meccanizzabili, irrigate…
Vero è che il sistema fondiario valdostano, al di là della frammentazione, fa sì che il 60% delle superfici coltivate non sia di proprietà, ma in affitto. Agli strumenti che favoriscono il riordino fondiario si dovranno aggiungere quelli che dovranno permettere di continuare a coltivare le attuali superfici e parte di quelle che risultano incolte.
La migliore misura del successo delle politiche agricole e ambientali è la superficie agraria che continuerà ad essere coltivata.
   
Pagina a cura dell'Assessorato territorio, ambiente e opere pubbliche © 2024 Regione Autonoma Valle d'Aosta
Condizioni di utilizzo | Crediti | Contatti | Segnala un errore