link home page
link la revue
link les numéros
link web école
links

Non ce la faccio più

Cos’è il burnout? Ecco alcune risposte e alcune proposte per conoscere e reagire a quella che è stata definita la “malattia da insegnamento”.

Io dottoressa in psicologia…

La parola burnout compare per la prima volta negli anni trenta nel gergo sportivo nel quale indica quel fenomeno per cui un atleta, dopo anni di successi, si esaurisce e non è capace di dare più nulla dal punto di vista agonistico.
Si diffonde quindi in ambito lavorativo negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni Settanta in riferimento alle professioni di aiuto (helping professions): dopo mesi di impegno, il personale “si brucia”, cioè “crolla” moralmente ed emotivamente, mostrando atteggiamenti di irrequietezza, nervosismo, apatia, indifferenza e, a volte, anche cinismo nei confronti del proprio lavoro.
Leggere il pensiero di alcuni autori su questo fenomeno, può aiutarci a comprenderne il significato.
Cary Cherniss (1983), ad esempio, sottolinea che “il burnout rappresenta, da un punto di vista psicologico, un particolare tipo di risposta ad una situazione di lavoro sentito come intollerabile”; più recentemente, Gianni Del Rio (1990) lo definisce come “il non farcela più, il malumore e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori”.
Christina Maslach (1975) spiega il burnout come una “perdita di interesse nei confronti delle persone con cui si lavora, accompagnata a stress ed insoddisfazione eccessivi”. Secondo la stessa Maslach, la Sindrome del burnout si caratterizza per tre aspetti particolari: l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la ridotta realizzazione personale sul lavoro.
L’esaurimento emotivo indica lo svuotamento delle risorse emotive e personali. Questa fase è caratterizzata da sintomi come stanchezza, fatica e disturbi psicosomatici.
La depersonalizzazione indica il senso di inadeguatezza provato dall’individuo il quale assume atteggiamenti negativi e prova sentimenti di distacco nei confronti degli altri.
La ridotta realizzazione personale implica che l’individuo si sottovaluti dal punto di vista professionale, manifestando scarsa autostima, rinuncia al desiderio di successo, senso di frustrazione.
In generale, la Sindrome del burnout è caratterizzata da particolari stati d’animo (come ansia, bassa autostima, senso di colpa), da somatizzazioni (del tipo disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno, emicrania), nonché da reazioni comportamentali (quali frequenti ritardi o assenze dal lavoro, distacco emotivo, mancanza di creatività).

… ed io insegnante

Fino a questo punto ho parlato del burnout come fenomeno generale. Ora analizzerò la sindrome riferendola ad una precisa categoria, quella dei docenti, alla quale io stessa appartengo.
La figura dei docenti è mutata nel tempo. In passato, si riconosceva loro un alto prestigio ed il loro lavoro era considerato “socialmente utile” sia da un punto di vista educativo sia da un punto di vista didattico. Oggi quello dell’insegnante viene spesso considerato un lavoro di tipo burocratico essendo sovente assimilato ad altri mestieri appartenenti al pubblico impiego. Anzi, la maggior parte delle persone pensa alla classe docente come ad una categoria privilegiata per l’orario di servizio ridotto o per la quantità di giorni di ferie disponibili nell’anno.
Non bisogna dimenticare che, in una struttura organizzata come quella scolastica, si tessono molteplici relazioni, formali e informali. Ciò comporta che il docente debba confrontarsi ogni giorno non tanto e non solo con i problemi degli alunni, ma anche con una serie di difficoltà che possono nascere dalle interazioni tra le persone dell’intera organizzazione.
Il lavoro dell’insegnante è molto spesso compresso dal rispetto di regole, imposte sia all’interno delle singole Istituzioni scolastiche (per garantire il buon funzionamento dell’organizzazione) sia a livello nazionale dal rispetto dei Programmi ministeriali e degli adempimenti burocratici. Tutto questo può ostacolare la fantasia e la creatività dell’insegnante, tanto importanti in un lavoro in cui si forma “materiale umano” e non beni di consumo.
Questo conflitto, dovuto alla discrepanza tra le regole imposte e le risposte personali che i singoli docenti vorrebbero dare, rappresenta una delle cause che possono portare gli operatori della scuola a sentirsi demotivati o, per usare il termine originale, “bruciati”.
Un’altra causa di burnout all’interno della classe docente deriva dalla scarsa gratificazione, anche (ma non soltanto) economica, in rapporto al titolo di studio: la maggior parte degli insegnanti, infatti, ormai è laureata. Alcuni ripiegano sull’insegnamento poiché non riescono a trovare, dopo la laurea, una sistemazione più consona al loro iter scolastico. Ecco perché si sentono poco motivati, poco realizzati: riferiscono spesso di avere l’impressione di “sprecare” la propria professionalità per un lavoro che non li qualifica pienamente come, a livello ideale, avevano immaginato. Si sentono semplicemente degli “impiegati” e non dei “professionisti”.
Non va dimenticato, inoltre, un altro fattore determinante: spesso gli insegnanti vivono un conflitto che nasce dalla differenza tra la cultura di cui si sentono portatori “per ruolo” e la cultura contemporanea con la quale si scontrano ogni giorno nelle aule. Intendo per cultura quei valori etici e morali che ogni buon insegnante vorrebbe trasmettere, ma che si scostano spesso, purtroppo, dai valori tipici dell’attuale società del benessere.
Non in ultima analisi, è da considerare il fatto che molti insegnanti non ricevono una preparazione adeguata nel corso della loro formazione professionale, per cui si trovano a sperimentare direttamente “sul campo” compiti estremamente delicati come la valutazione degli alunni o la programmazione del percorso didattico. Tutto questo rappresenta sicuramente una fonte di stress, almeno fino a quando una lunga e comprovata esperienza non intervenga ad alleggerire le difficoltà che il lavoro comporta.
Anche il rapporto diretto con gli alunni è spesso fonte di preoccupazione, soprattutto quando l’insegnante avverte la necessità di interagire con essi non solo nel ruolo specifico, ma anche in ruoli alternativi: come confidente, come secondo genitore o più in generale come “risolutore di problemi personali”.

Per prevenire

Cosa può fare allora un insegnante per evitare di essere colpito da burnout? Come per ogni altra patologia, occorre ricordare che “prevenire è meglio che curare”. È meglio puntare sulla prevenzione così da sconfiggere il burnout e bloccarlo prima che si manifesti.
Le possibili strategie di prevenzione possono essere attuate su più piani: individuale, organizzativo, istituzionale.
Sul piano individuale, i cambiamenti possono essere messi in atto dal singolo insegnante. Tali strategie sono dette “di coping” e rappresentano tutte quelle azioni che, messe in atto in condizioni di stress, aiutano a fronteggiarlo.
Solo a titolo di esempio, è meglio: programmare il lavoro in modo scrupoloso per tutta la settimana onde evitare di essere colti impreparati e dover affrontare situazioni di incertezza; non confrontarsi in modo eccessivo con i colleghi per evitare di cadere in pesanti autocritiche; cercare un po’ di relax dopo il lavoro (concedendosi uno sport, una passeggiata o un po’ di tempo da dedicare all’hobby preferito, una chiacchierata con amici, la lettura di un buon libro); cercare di leggere alcuni aspetti legati al lavoro anche in chiave umoristica; dimenticare il lavoro alla fine della giornata.
Diverse ricerche hanno, infatti, dimostrato che attività extra-scolastiche quali hobby, sport e impegni sociali possono essere utili per allontanare i pensieri legati al lavoro e per recuperare buon umore ed energia.
Sul piano organizzativo, gli insegnanti possono cercare di attuare alcune strategie direttamente nell’ambito lavorativo. Come dice Cary Cherniss, “è più facile ristrutturare un ruolo che ristrutturare il carattere sia dell’individuo che della società”.
Sicuramente un docente non può diminuire il numero degli alunni per classe, ma può dare suggerimenti di tipo organizzativo, che alleggeriscano il carico e le condizioni di lavoro. Tali suggerimenti possono poi essere spesi in diversi ambiti: dalla programmazione delle attività curriculari al turn over degli insegnanti. Tutto ciò ovviamente presuppone una grande attenzione al livello della comunicazione all’interno dello staff.
Sul piano istituzionale, le strategie necessarie per evitare il burnout degli insegnanti sono quelle di tipo “sociologico”. Mi riferisco, ad esempio, alla possibilità per i docenti di usufruire di un “polo di ascolto” collocato anche all’interno della scuola. Ci si potrebbe avvalere della figura di uno psicologo scolastico (ormai presente in ogni Istituzione scolastica), al quale chiedere uno spazio da dedicare non solo ai bambini e/o alle loro famiglie, ma anche agli stessi insegnanti. Tutto questo naturalmente presuppone che la stessa Istituzione scolastica riconosca il burnout come una sindrome che può colpire il corpo docente e che, di conseguenza, organizzi non solo alcuni incontri per spiegarlo, ma fornisca anche i mezzi e le strategie per evitarlo ed eventualmente fronteggiarlo.
Come insegnante e dottoressa in psicologia mi viene spontaneo questo suggerimento: se non è l’istituzione a trattare spontaneamente l’argomento, perché non siamo noi a proporlo al primo Collegio docenti dell’anno scolastico?
In fondo, il lavoro che siamo chiamati a svolgere non è solo di tipo educativo e didattico: il nostro scopo è anche quello di creare una situazione di benessere ai nostri alunni e di conseguenza alle loro famiglie.
Proviamo allora a partire dal semplice presupposto che solo curando il benessere personale e professionale abbiamo qualche chance di raggiungere l’obiettivo più importante della nostra mission e cioè lo “star bene” a scuola.

Flavia Pirillo

 

 

couriel