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La dimensione erotica dell'insegnare e dell'apprendere

Un antidoto alla noia per i docenti e per i discenti: coltivare la passione per l’apprendere.

Di questi tempi, parlare di dimensione erotica dell’insegnare e dell’apprendere può risultare molto pericoloso, tuttavia non riesco a intravvedere alcuna alternativa alla noia né per i docenti né per i discenti: in tutta onestà l’unico reale antidoto mi pare sia coltivare la passione non tanto per l’insegnamento quanto per l’apprendere costante che la professione di insegnanti offre. I docenti, infatti, sono innanzitutto studenti ad infinitum, sempre più coscienti dell’immensità del sapere e profondamente assetati di conoscenze, attraverso le quali tentare di rispondere innanzitutto ai loro interrogativi più pressanti. “Solo così, - dice Platone(1) parlando della filosofia - dopo una lunga frequentazione e convivenza con il suo contenuto essa si manifesta nell’anima, come una luce che subitamente si accende da una scintilla di fuoco”. L’insegnante non può incontrare la noia, né in se stesso né dipinta sul volto dei suoi allievi se impara a trasformare le sue conoscenze in competenze proprio a partire dalla sua personale riflessione e ricerca. L’insegnamento così inteso non può risultare freddo, distante e quindi noioso, ma diventa vivo e “sanguigno”, come direbbe Nietzsche che sottolinea come “Il disinteresse non ha valore né in cielo né in terra; i grandi problemi esigono tutti il grande amore […]. Altro è se un pensatore prende personalmente posizione di fronte ai suoi problemi in modo da trovare in essi il suo destino, la sua pena e anche la sua maggiore felicità, altro è se si avvicina a questi problemi in modo impersonale, cioè se li tocca e vi attinge solo con pensieri di fredda curiosità”.(2)
L’insegnante che sa non annoiarsi e non annoiare è spinto da un forte desiderio di condividere con i discenti il suo amore per quell’aspetto della cultura che ha scelto di frequentare di più e si preoccupa innanzitutto di trovare le parole e i modi per trasmettere ai più giovani la sua passione. Ciò implica non solo un costante aggiornamento rispetto alle discipline che insegna, ma anche il sentirsi a suo agio nel gruppo classe, anzi che, in qualche modo, egli si innamori degli studenti che gli vengono affidati: la sua massima preoccupazione sarà così quella di creare con loro un clima emotivo in cui le domande esistenziali di ciascuno possano trovare uno spazio naturale in cui esprimersi perché, come “non si lascia mai il parrucchiere senza aver lanciato una discreta occhiata allo specchio per vedere a che cosa, ora, si rassomiglia; così, dopo una lezione, una conversazione di filosofia, l’ascolto deve concludersi in questo sguardo che si pone su se stessi, per sapere dove si è in rapporto alla verità”. (Michel Foucault)

Quali condizioni per la piena efficacia dell’antidoto?

Le prospettive antinoia finora delineate devono però trovare delle condizioni favorevoli in cui svilupparsi: il docente non può essere lasciato solo nello scorrere degli anni a lottare per tenere viva, da vero irriducibile don Chisciotte, la sua carica motivazionale originaria: solo in pochi finirebbero per uscirne vivi e per riuscire a cacciare lo sconforto o, peggio, il burnout che pare di fatto affliggere proprio la classe insegnante.
A me tali condizioni paiono chiarissime e continuo a stupirmi che, nei troppi futili dibattiti sulla necessaria riforma della scuola, pochi si preoccupino di enuclearle e, soprattutto, di tentarne concretamente un’attuazione.
Se il primo problema dell’insegnante che si riproponga di non essere noioso è di studiare ogni giorno almeno quanto i ragazzi più motivati, perché la partecipazione a corsi di aggiornamento seri, o meglio a convegni, giornate di studio e seminari è “octroyée” come un lusso, tanto che il docente privilegiato deve sostenerne personalmente le spese? Se poi all’insegnante venisse in mente il ghiribizzo di iscriversi ad un ulteriore corso di laurea o a un master, dovrà districarsi tra mille ostacoli e scarsissima considerazione per portare avanti degnamente sia il suo lavoro quotidiano sia la velleità di non ripetere sempre le stesse lezioni dalla sua prima laurea al pensionamento. Nei dottorati, infine, sono previsti i cosiddetti “posti degli insegnanti a ruolo”, ovvero quelli a costo zero per l'Università e per i quali il Ministero prevede l'esonero dall'insegnamento e il mantenimento dello stipendio e del posto di lavoro. Capita così sempre più spesso che insegnanti “di ruolo” si trovino a competere con giovani freschi di laurea, disposti ad accettare un dottorato di tre o più anni senza alcuna borsa di studio, data la situazione insostenibile di precariato e disoccupazione che uccide la voglia di futuro dei giovani in molte regioni italiane. A questo punto, un dubbio sorge spontaneo: è così complicato creare due graduatorie non concorrenti e, più in generale, aprire dei canali meno tortuosi per gli insegnanti meritevoli disposti a mettersi continuamente in gioco o della loro formazione permanente di fatto non importa nulla a nessuno?
Il sistema vigente è senz’altro funzionale ad assicurare l’esperienza della noia a tutti e solo una carica motivazionale abnorme, ma troppo lasciata alla gestione privata da parte dei molti don Chisciotte che vivono nella scuola, permette a quest’ultima di continuare ad offrire, imperterrita e indomabile, educazione e cultura.
Di fronte agli altri, alla palude, agli insegnanti che non abbiano fatto dell’utopia il loro pane quotidiano(3), resta un orizzonte grigio e piatto su cui affacciarsi dall’entrata in ruolo al pensionamento, trascinando nella propria frustrazione generazioni di studenti; questi non potranno se non coltivare aggressività e rifiuto verso una scuola che non sa motivare né orientare e verso una professione sempre meno accattivante, da offendere e calpestare.
D’altronde quale messaggio arriva ai giovani da uno Stato che non ha a cuore la professionalità docente tanto che essa non merita investimenti, la si può tranquillamente sottopagare e lasciare che assai spesso si confonda con il volontariato? Quale stima sociale ci si può attendere in un Paese che non si preoccupa del suo futuro, come dimostra chiaramente il trattamento riservato alla ricerca e ai centri di formazione di ogni ordine e grado?
Allo stesso modo è trattato il bisogno, quasi inconfessabile come qualcosa di sconcio, di confrontarsi seriamente tra insegnanti-colleghi con l’aiuto di uno psicologo di istituto sui fondamentali aspetti emotivi dell’insegnamento e dell’apprendimento. Quali occasioni offre oggi la scuola per riflettere sulla fondamentale relazione tra insegnanti e allievi, sulla gestione delle dimensioni affettive che essa necessariamente smuove, delle conflittualità che sovente nascono in un ambiente fatto innanzitutto di persone che tentano di lavorare insieme?(4) Di scuola si parla perlopiù in modo asettico, le emozioni sembrano bandite, è pericoloso volerne parlare, quando tutti sanno - anche sulla base delle esperienze personali spesso rimosse - che l’efficacia dell’apprendere passa innanzitutto attraverso la simpatia e la fiducia che l’insegnante sa creare attraverso la sua persona ben prima che nei confronti della sua materia. “Noi siamo volontà e abbiamo intelletto. E questa volontà che noi siamo è il punctum saliens, il perpetuum mobile del nostro essere(5). Schopenhauer direbbe a proposito di scuola che gli studenti avvertono emotivamente e in brevissimo tempo ciò che noi insegnanti siamo, come persone oltreché come professionisti, molto prima che le nostre lezioni permettano loro di capirlo in modo razionale e cosciente.
In modo altrettanto immediato essi si accorgono se gli obiettivi educativi trasversali, di cui tanto si parla a ogni inizio d’anno scolastico, sono meri adempimenti burocratici - come spesso rischiano di diventare i vari organi collegiali - o se il consiglio della loro classe è un’equipe di professionisti, impegnati a offrire ad ogni studente un percorso transdisciplinare di formazione umana e intellettuale e se, quindi, essi sono capaci di ascolto e di dialogo.

Il lutto dell’apprendere e la noia ontologica

Al termine dell’analisi bisogna continuare a essere onesti: la scuola, anche nella migliore delle ipotesi, non può risultare per nulla noiosa nel senso che una formazione seria implica tanta responsabilità personale, impegno e dedizione; la fatica che è quindi imprescindibile risulta senz’altro noiosa, come anche la cosiddetta dimensione del lutto, ovvero la necessità di far morire in noi che siamo tutti discenti le certezze incrollabili, per assumere quel sano atteggiamento falsificatore, capace di farci intravvedere nuovi orizzonti di verità. C’è forse un lavoro più pesante e quindi sicuramente noioso di questo
per noi esseri umani che tendiamo in continuazione all’economia cognitiva, al risparmio delle forze mentali per adagiarci piacevolmente su ciò che è rassicurante e ha un’aria di familiarità? Eppure “È nostro compito morale rimanere critici, cioè restare umani, ansiosi di correggere senza sosta i nostri errori e risalire così dall’oscurità della caverna in cui tutti ci troviamo(7).
Ben venga allora la noia che ci mette di fronte ai nostri limiti, ai tanti pregiudizi di cui siamo portatori, alla necessità di toglierci le incrostazioni cognitive, gli idola di cui parla Francis Bacon, per aprirci all’esplorazione di nuove strategie.
È quanto ha precisato magistralmente Giovanni Reale spiegando a che cosa serve morire a noi stessi studiando la filosofia: “Il punto di arrivo dell’insegnamento della filosofia sta nella formazione di menti ricche di teorie, scaltrite nel metodo, capaci di impostare e svolgere in maniera metodica i problemi e di leggere in modo critico la complessa realtà che le circonda. […] Lo scopo è quello di creare nei giovani una ragione aperta, capace di difendersi rispetto alle molteplici sollecitazioni contemporanee di fuga nell’irrazionale o di ripiegamento sulle anguste posizioni pragmatiste e scientiste. E la ragione aperta è una ragione che sa di avere in sé i correttivi di tutti gli errori che (in quanto ragione umana) via via commette e la forza di ricominciare itinerari sempre nuovi”.
La noia poi, a ben vedere, presenta una dimensione esistenziale ineludibile, nel senso che si lega a quanto è quotidianità, routine, all’impossibilità di “ vivere la vita come un fuoco d’artificio ”, secondo la pretesa avanzata dall’esteta di Kierkegaard che, evitando ogni impegno e conducendo un’esistenza evasiva, finisce poi egli stesso per annoiarsi(8).
La noia si presenta come qualcosa di radicale e di connaturato all’esistenza umana: essa non è solo un fatto psicologico, bensì ontologico in quanto inerisce alla natura dell’uomo(9).
Nessuno meglio di Schopenhauer ha saputo dipingere i contorni della noia quando ha scritto che “Nell’uomo essa diventa un vero tormento. Come si può vedere da quella schiera di disgraziati che, essendo stati sempre occupati a riempire la loro borsa e non il loro cervello, trovano nel loro stesso benessere la loro pena, in quanto cadono nelle braccia d’una noia insopportabile a cui cercano di sfuggire andando a caccia, vagabondando, viaggiando di qua e di là. […] Ciò che è naturale essendo il bisogno e la noia i due poli della vita umana(10).
L’auspicio finale è dunque che l’impegno quotidiano dei tanti docenti seri e motivati, che avrebbe urgenza di trovare nelle istituzioni un accorato scudo, deve far riconoscere nella noia una nemica da combattere, ma solo quando essa diventi sinonimo di fuga dalle responsabilità, di pigrizia intellettuale e di disamore o di critica ingrata verso una professionalità tanto bistrattata quanto importante, nell’ottica fondamentale della formazione delle nuove generazioni e quindi del cambiamento.

Daria Pulz

 

Note
(1) Platone, Lettera VII, 341 c-d
(2) Nietzsche F., La gaia scienza.
(3) Ma secondo Herbert Marcuse - lo spiega in Eros e civiltà - “L’utopia è necessaria e portatrice di un futuro migliore”.
(4) Il problema viene affrontato con grande acume in un testo datato che ciascun insegnante dovrebbe poter riprendere in mano: Salzberger-Wittenberg I., Williams Polacco G., Osborne E. (1987), L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento, Liguori, Napoli.
(5) Schopenhauer A., Il mondo come volontà e rappresentazione.
(6) Il concetto dell’apprendimento come lutto può essere utilmente esplorato a partire dall’interessante testo di Blandino G., Granieri B. (1995), La disponibilità ad apprendere. Dimensioni emotive nella scuola e formazione degli insegnanti, Raffaello Cortina, Milano.
(7) Antiseri D. (1999), Didattica della filosofia. Il mestiere del filosofo, Armando, Roma, p. 16
(8) Cfr. Kierkegaard S., Diario del seduttore.
(9) Klein A., Introduzione all’etica di Schopenhauer, Corso di filosofia morale, facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Torino, anno accademico 1988/89.
(10) Schopenhauer A., op.cit.

 

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