Bere o non bere? Su temi come questo è 
          facile estremizzare le posizioni. Ma, così facendo, si rischia 
          di perpetuare una cultura che fa dell’alcool il falso simbolo 
          della maturità, della forza e della capacità di emergere. 
          
          Esiste un “bere oltre” deleterio e distruttivo, ma anche 
          un “bere di qualità” che nulla ha a che spartire 
          con l’abuso. Si tratta della stessa differenza che c’è 
          tra gustare un piatto di alta cucina e fare un’indigestione. Abbiamo 
          voluto fornire, con questi due articoli non due visioni differenti, 
          ma due lati dello stesso problema. Due organizzazioni, il Ser.T. e l’Ais 
          (Associazione Italiana Sommelier) che lottano contro l’abuso. 
          Gli uni per recuperare, gli altri per educare. 
        Dal bere smodato… al bere di qualità
        Una ricerca condotta dallo studio Emmeerre nel 2005 ha evidenziato 
          che, su di un campione di 878 giovani studenti valdostani che frequentano 
          le prime, terze e quinte classi della scuola secondaria di secondo grado, 
          il 32% risulta astemio, il 46% bevitore moderato e ben il 22% bevitore 
          a rischio. Il dato è preoccupante perché riguarda una 
          fascia di popolazione che si colloca tra i 15 e i 19 anni.
          Nel corso del mese precedente la rilevazione, il 44% del campione si 
          era ubriacato almeno una volta e il 50% di coloro che possedevano una 
          patente aveva guidato in stato di ebbrezza. Un fenomeno di questa portata 
          si comprende come, da problema medico, diventi problema sociale. 
          E, in effetti, le sue cause sono essenzialmente sociali. La nostra è 
          una cultura definita dagli esperti “cultura bagnata” che 
          prevede poco proibizionismo e una scarsa presenza di astemi nella popolazione, 
          un uso frequente, ma non smodato, dell’alcool, un’elevata 
          mortalità per cirrosi epatica, l’emarginazione dell’alcoolista 
          cronico disturbante e il vino inserito nella dieta. 
          Da questo tipo di cultura si sta passando, senza soluzione di continuità, 
          ad una cultura di tipo ultrapermissivo la cui caratteristica principale 
          è la tendenza a riconoscere nei danni dell’alcool una certa 
          inevitabilità, come se l’abuso non fosse frutto di intenzione, 
          ma di un’azione compulsiva inevitabile che porta a bere “per 
          cultura”. Di qui nasce l’illusione che le “bevute 
          esagerate” siano solo delle “bravate” o delle tappe 
          di un’iniziazione adolescenziale necessaria per diventare adulto.
          Certo non è facile fare cogliere come comportamento a rischio 
          l’utilizzo di sostanze psicoattive, quali l’alcool, che 
          la cultura categorizza come “sostanze alimentari”. Eppure 
          i morti per alcool, diretti o indiretti, sono, in Italia, circa 30-50 
          000 l’anno mentre i morti per l’eroina sono circa 1 000.
          L’alcool è una “droga legale” di consumo talmente 
          generalizzato che ormai si nasconde anche nelle cosiddette “Alcolpops”, 
          le nuove frontiere delle bevande a basso tasso alcolico, ma che, comunque, 
          contengono il 5% circa di alcool, più o meno quanto una birra. 
          Chi beve un “Bacardi”, “Mixx” o “Loco”, 
          crede di bere innocue bevande a base di frutta, invece ingerisce una 
          cospicua quantità di alcool. Il pubblico giovane e femminile, 
          al quale si indirizza questo prodotto, è particolarmente vulnerabile 
          poiché le donne e i giovani hanno meno capacità di metabolizzare 
          l’alcool.
        
         A questa pressione pubblicitario-commerciale, va aggiunto il valore 
          sociale che ricopre il bere. Non si tratta solo delle fin troppo decantate 
          “Feste dei coscritti”, spesso coronate da coma etilici o 
          da sbronze dirompenti, ma qualunque situazione di un certo rilievo è 
          celebrata utilizzando l’alcool quale sugellatore di momenti buoni 
          e felici. Non è certo il bicchiere di vino che si stigmatizza, 
          ma l’associazione tra alcool e felicità, gioia, piacere. 
          Questa illusione è pericolosa perché in soggetti deboli 
          può portare a facili giochi mentali e rifugi in felicità 
          artificiosamente costruite.
          Non c’è felicità per chi abusa: dovrà affrontare 
          la probabile disgregazione del nucleo familiare e problemi di lavoro, 
          dato che è evidente che una persona in stato di alterazione psichica 
          non può essere utilizzata in lavori che presuppongano attenzioni 
          puntali, manualità fine, contatto con il pubblico, attività 
          educativa. Vengono precluse gran parte delle possibili attività 
          lavorative, aumentando sensi di “deficienza” e di frustrazione. 
          Devastanti sono le azioni dell’alcool sul feto: la probabilità 
          che nascano figli con gravi malformazioni è estremamente elevata.
          E si corrono anche rischi personali. Diminuendo le capacità inibitorie 
          dell’individuo, oltre ai pericoli legati alla guida, l’alcool, 
          assunto in grandi quantità, ha una forte incidenza sulla spinta 
          alla criminalità e un’accentuazione della spinta al suicidio. 
          Si tratta di problemi sociali che hanno anche un impatto economico sulla 
          collettività che cerca di contenerli e tenta il recupero di coloro 
          che ne sono colpiti.
          Qual è il limite di tolleranza? La quantità di alcool 
          tollerabile è individuale e spesso non esistono “campanelli 
          di allarme” in grado di disincentivare l’individuo dal bere 
          ulteriormente. La concentrazione di alcool nel sangue raggiunge livelli 
          eccessivi quasi insensibilmente, facendo passare da uno stato di leggera 
          alterazione ad uno di ottundimento dell’intelletto senza gradualità, 
          quasi di colpo.
          E non si pensi che i danni siano solo quelli classici derivanti da una 
          possibile cirrosi. Tutti gli organi vengono colpiti in maniera importante, 
          in particolare il cervello ed è questo che fa perdere il controllo 
          del proprio corpo. 
          È soprattutto falso che un moderato bere apra la mente e produca 
          creatività. A fronte di scrittori “maledetti” e portatori 
          di una vita sfrenata, generalmente breve anche se intensa, vale la pena 
          di riportare una frase di Rick Moody, scrittore di successo americano: 
          “L’illusione sotto cui agivo era che l’alcool mi avrebbe 
          aperto la mente, aiutandomi a capire la psicologia umana, ma, alla fine, 
          accadde il contrario. Si rivelò un ostacolo per scrivere. Mi 
          ottundeva la mente, ero ansioso ed egocentrico, incapace di identificarmi 
          nelle motivazioni degli altri”.
          Lo stesso discorso vale per l’attività sessuale. Molti 
          ragazzi bevono per superare la timidezza nei confronti dell’altro 
          sesso, ma si tratta di un’illusione pericolosa. Se i freni inibitori 
          vengono allentati, a volte lo sono fino alla totale mancanza di controllo 
          e questo porta ad effetti esattamente contrari rispetto a quelli voluti. 
          Inoltre l’alcool non è affatto l’afrodisiaco che 
          si crede, al contrario provoca il calo del desiderio sessuale oltre 
          ad effetti secondari che rendono sgradevole il rapporto sia sul piano 
          fisico che su quello psicologico.
          Cosa fare allora per prevenire quello che, si presenta come un alto 
          rischio sociale? Gli strumenti del proibizionismo, pur obiettivamente 
          semplici ed immediati, sono del tutto inefficaci. Si tratta di predisporre 
          un lavoro di lungo respiro, legato a forti scelte politiche, che permetta 
          di cambiare la cultura della popolazione. Delle scelte che privilegino 
          la qualità rispetto alla quantità, che permettano di classificare 
          le sostanze psicoattive con il loro nome (qualcuno propone la dicitura 
          “droghe legali”), come deterrente, anche a discapito di 
          frange economiche che indubbiamente potrebbero soffrire di questa situazione, 
          una legislazione e una sorveglianza severa sul suo rispetto, in particolare 
          sulla tutela dei minorenni, potrebbero contribuire a delimitare una 
          cultura del bere disegnandone dei contorni socialmente accettabili. 
          Per fare questo bisogna fare crescere nei giovani la consapevolezza 
          e la capacità critica verso loro stessi e verso la società 
          che li circonda perché è solo con questi strumenti che 
          si favorisce una vera crescita culturale.
          Per favorire l’appropriazione di questa cultura, il Ser.T. attua 
          interventi di prevenzione nelle scuole al fine di illustrare i comportamenti 
          a rischio e i rischi psico-fisici ai quali si va incontro assumendo 
          dosi eccessive di alcool. Il servizio ha rilevato come sia difficile 
          indurre questa consapevolezza nei ragazzi: l’alcool ha l’immenso 
          svantaggio di essere legale e psicologicamente e culturalmente legato 
          al cibo. Tutto questo porta a sottovalutare pericoli e rischi. Eppure 
          ci sono dei deterrenti. I ragazzi non temono tanto la cirrosi epatica 
          o la dipendenza, rischi lontani, ma la “figuraccia” con 
          l’altro sesso, il ritiro della patente, le risse, le violenze 
          sessuali. 
          È su questi aspetti che il Ser.T. tenta di collegarsi nei suoi 
          interventi per spezzare la catena terribile del concetto di divertimento 
          come ubriacatura, perdita del controllo, trasgressione, ricerca dello 
          sballo. 
          Il limite tra il “bere bene” e il “bere oltre” 
          è, purtroppo, labile. Per questo si deve intervenire sulla cultura 
          e non solo sulla repressione. Altrimenti si tratta di una battaglia 
          persa.
        A cura della Redazione
        Si ringraziano per le informazioni: 
          Lindo Ferrari, Direttore del Ser.T. dell’Azienda Sanitaria Locale 
          per la Valle d’Aosta
          Anny Luboz, Educatrice professionale del servizio di Algologia del Ser.T. 
          dell’Azienda Sanitaria Locale per la Valle d’Aosta
        
          Dal bere smodato… al bere di qualità
        I giovani tendono a bere alcool perché è dolce e a questo 
          gusto il nostro palato è abituato e lo trova gradevole. Inoltre, 
          con gli effetti che dà l’alcool hanno la sensazione di 
          potersi mettere in evidenza, di emergere. 
          Lo stare assieme, il conversare, lo scambiarsi notizie, battute scherzi 
          può essere favorito dallo stare assieme e dal consumare assieme 
          un prodotto che, se consumato con moderazione, non produce effetti nocivi. 
          Il nostro tentativo, in quanto sommeliers e commercianti, è stato 
          questo: favorire, durante i momenti di aggregazione tra giovani, il 
          consumo di questa bevanda piuttosto che dei superalcolici.
          Certo, fino ai 18-20 anni l’alcool non viene assimilato dall’organismo 
          e quindi può provocare gravi danni. Questo impone, a chi lo somministra, 
          un’attenzione forte e un saper rinunciare a guadagni in nome di 
          un benessere collettivo, ma, dopo questa età, un consumo moderato 
          di vino non produce effetti dannosi poiché, a parità di 
          quantità ingerita, il contenuto in alcool di un vino rispetto 
          ad un liquore è estremamente minore. A volerla riassumere con 
          uno slogan si potrebbe dire “Meno alcool e più compagni”.
          In un’esperienza condotta nella Valle di Gressoney, l’inizio 
          dell’azione educativa è consistito nel proporre vini di 
          buona qualità, quali il Moscato o il Brachetto, vini dolci e 
          che non superano i 4-5° di alcool. Non è stato facile perché 
          queste località sono frequentate da giovani provenienti dalle 
          grandi città, abituati spesso a bere superalcoolici. Si è 
          trattato di un’attività durata alcuni anni.
          Solamente il credere alla validità dell’esperienza ha permesso 
          di ottenere validi risultati. Ho cominciato, assieme ad alcuni colleghi 
          commercianti, a proporre a questi gruppi di giovani quei vini e, nel 
          giro di poco, non hanno bevuto più nessun altro alcoolico o superalcoolico. 
          Il passaggio è stato graduale, ma, a poco a poco, si sono trasformati 
          in degustatori, in palati attenti alla qualità.
        
         Una cosa molto curiosa: questa richiesta si è espansa talmente 
          tanto da diventare, nel lungo periodo, parte integrante dell’economia 
          del paese e i gestori dei locali pubblici hanno cominciato a porre attenzione 
          a proporre vini di qualità a questa fascia di avventori. Il gruppo 
          ha svolto un ruolo determinante. Si è velocemente creata una 
          cultura di tutto il gruppo: il bere del vino di qualità è 
          diventato un modo di stare assieme, forse una forma di snobbismo, sicuramente 
          meno deleteria dell’ubriacatura o dello sballo. In quegli anni, 
          infatti, non ho mai avuto problemi di ubriacature, di molestie, di risse 
          nel mio locale. Si trattava di un modo diverso per stare con gli amici, 
          interessante, piacevole, divertente. 
          Era stata superata, a poco a poco, anche quella difficoltà che 
          molti giovani incontrano nel loro primo contatto con il vino. Contrariamente 
          a quanto si crede, il vino ha un sapore acidulo con venature di amaro. 
          L’aver iniziato a gustare vini dolci di qualità li aveva 
          avvicinati ad un mondo che può essere fatto di raffinatezza e 
          scelta.
          Il metodo del partire da lontano, lasciando da parte, almeno all’inizio, 
          i vini importanti, dai gusti forti, per cercarne altri che meglio si 
          adattassero al palato dei giovani, ha prodotto buoni frutti tanto che 
          ci sentiamo di proporne la diffusione in altri ambiti. 
          Trattandosi di vini che non possono portare allo “sballo”, 
          se non assunti in quantità proibitive, anche i ragazzi hanno 
          imparato a gustare più che a bere. In questo modo i giovani hanno 
          potuto adattare progressivamente il loro gusto a questo nuovo prodotto, 
          abbandonare progressivamente i superalcolici e iniziare a bere vino 
          gustandolo in compagnia. Ed è proprio l’esperienza collettiva 
          che ha evidenziato il successo di questa campagna.
          Anche dal punto di vista commerciale, e non scandalizzi parlare di questo, 
          il discorso è vantaggioso: comperare vino costa molto meno che 
          acquistare superalcolici e il margine di guadagno è superiore. 
          Questo potrebbe indurre ad una svolta alcuni commercianti.
          Il problema è culturale. Si tratta quindi di instaurare una cultura 
          del bere che non punti a isolare in paradisi artificiali inesistenti 
          e pericolosi, che non abbia come fine l’annientamento della coscienza; 
          si tratta di favorire l’incontro e il contatto tra le persone. 
          
          È qualcosa che va, ed è evidente, oltre il concetto di 
          bere quale rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità. 
          Non si beve per diventare grandi, ma si è grandi perché 
          si beve bene. E questo diventa una cultura legata al bere come assaporare, 
          gustare, apprezzare, essere presenti a se stessi.
          Non è certo questo il compito principale dell’Associazione 
          Italiana Sommeliers, alla quale appartengo, tuttavia il mantenimento 
          di continui contatti con la scuola alberghiera, ad esempio, o con l’Università, 
          in particolare con l’università di Piacenza e la Bocconi, 
          ci permette di diffondere questo modo di pensare che dovrà arrivare 
          a scalzare il vecchio collegamento: vino-ubriacatura. E poiché 
          non si tratta di un problema esclusivo del nostro paese siamo attivi 
          anche oltre i confini nazionali, tanto che teniamo dei corsi universitari 
          in paesi di madrelingua spagnola e abbiamo contatti con la Svezia. 
        Moreno Rossin
        
          Chi volesse richiedere un intervento della nostra 
          Associazione può farlo scrivendo all’Ais, Viale Monza, 
          9, 20127 Milano, che risponde al n. di telefono 02-2846238 oppure al 
          Caffè Roma in Via Aubert, 28 ad Aosta, il cui numero di telefono 
          è 0165-262422.
          Costruire un percorso insieme sarà un piacere.