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        Una scuola che profuma di ciboOre 12: tutti a tavola!Il mio pensiero va spesso alla cuoca della scuola del 
        paese dove ho prestato il mio primo anno di servizio (santa donna!) che, 
        verso le 10 del mattino, passava in classe a salutarci e ad annunciarci 
        il menù della giornata… Avevamo così ben due ore per 
        pregustarlo, aiutati nel piacevole compito dai profumini che provenivano 
        dalla cucina-refettorio adiacente alle aule.Anche nella scuola dove insegno adesso, in città, il refettorio 
        è adiacente alle aule, anzi ce ne sono tre, ma di profumini neanche 
        l’ombra!
 Fino al momento dell’apertura dei piatti contenenti i pasti preconfezionati, 
        il nostro refettorio odora di un anonimo profumo di pulito.
 In realtà, tutto risulta un po’ anonimo: le tovagliette di 
        carta sui tavoli, le posate di plastica, il cibo poco saporito…
 Eppure l’inserviente fa di tutto per rendere accogliente il refettorio: 
        disegni alle pareti, pitture a tema sui vetri delle finestre…
 Sarà che usufruisco del servizio di refezione scolastica da circa 
        vent’anni e malgrado l’alternanza delle varie cooperative 
        che lo gestiscono non ho visto grandi cambiamenti, sarà che il 
        mio pasto da adulto è esattamente uguale per caratteristiche qualitative 
        a quello di un bambino di tre anni, sarà che devo dividerlo con 
        la mia collega di sezione (abbiamo diritto a un pasto in due), sarà…
 Il verbo piacere non sopporta l’imperativo.
 Allora penso che mangiare insieme, come giocare insieme, sia una grande 
        occasione per conoscersi e per conoscere, per sentirsi rassicurati e accolti, 
        per pensarsi come soggetto ricco di idee, emozioni ed esperienze.
 E questo mi basta.
 Arianna Montini
 
 L’insegnante che faceva 
        anche il cuoco Sono ormai molti anni che non frequento più le 
        scuole, se non per sporadici interventi relativi all’informatica, 
        ma non posso fare a meno di ricordare alcuni trascorsi da maestro (chissà 
        perché insegnante non rende l’idea?) in quelle scuole di 
        paese indissolubilmente legate alle cantines, adesso Restaurants 
        scolaires.Una supplenza di quindici giorni in un paesino della Coumba Freide. Il 
        cuoco, che era anche vigile del fuoco, messo comunale, autista dello scuolabus 
        (scuolabus è una parola grossa, era una vecchia Land Rover che 
        ancora adesso sento cigolare…), becchino, postino e chissà 
        cos’altro ancora, mi aveva stupito perché aveva variato ogni 
        giorno il menu: dall’arrosto, allo spezzatino, al bollito, agli 
        sgombri, ai mitici bastoncini del Capitano, di tutto era passato sulla 
        nostra tavola! Lo vedo ancora in una mattina d’inverno, di buon’ora, 
        venire verso la scuola, sotto una copiosa nevicata, portando due tacchini, 
        allegro e sorridente.
 E che dire delle polpette di Silvana, così buone, ma così 
        buone che una mia collega, una volta sì e l’altra pure, faceva 
        indigestione; o di Ida e Maura che, ogni tanto, ci deliziavano con piatti 
        sfiziosi come lo zuccotto di riso foderato di prosciutto cotto.
 In quelle scuole, la cucina era nello stesso edificio delle aule. A metà 
        mattina, già sapevi cosa avresti mangiato a mezzogiorno. L’aria 
        era sempre piena di profumi che lanciavano messaggi appetitosi.
 Una volta, da un paesino sopra Aosta, momentaneamente isolato da un’inaspettata 
        e tardiva nevicata, mi hanno telefonato per chiedermi se potessi, prima 
        di provare a salire, passare a prendere il pane per tutta la frazione. 
        Nonostante la gloriosa 500 di mia madre, con tanto di catene, non riuscii 
        ad arrivare fino alla scuola. Ma il pane sì. Una provvidenziale 
        campagnola della Forestale era passata di lì e l’aveva caricato.
 Sembrerà strano, ma ho supplito anche il cuoco. Insegnavo, più 
        di vent’anni fa, in una scuola frequentata solo da tre bambini, 
        ovviamente di tre classi diverse. Tra il capoluogo e la frazione c’era 
        un punto della strada esposto alle valanghe e quindi non si poteva, d’inverno, 
        rischiare di spostare i bambini (il maestro, invece…). Tutti i giorni 
        ricevevo “la comanda” dalla cuoca per la macelleria del fondo 
        valle. La cuoca, la signora Alice, che di maestrini come me ne aveva visti 
        tanti, aveva l’aspetto serio, quasi burbero, ma aveva un cuore grande 
        come una casa. Tutte le mattine “il maestro”, che, con il 
        sindaco, il prete e il farmacista, faceva parte delle autorità 
        del paese, passava dalla macelleria e portava a scuola la carne, gli affettati 
        e tutto quello che non si trovava nel negozietto del paese. Ma un giorno 
        la signora Alice si ammalò. Il sindaco, non sapendo come fare a 
        sostituirla, avrebbe dovuto chiudere la refezione per alcuni giorni con 
        il rischio che le famiglie tenessero a casa i bambini.
 Forse per il senso di appartenenza ad una comunità, forse semplicemente 
        per l’incoscienza dei miei vent’anni, dissi di slancio: “Non 
        si preoccupi, se vuole faccio io da mangiare anche per i bambini, tanto 
        dovrei farlo per me”.
 “Ma davvero lo farebbe?”
 “Certo, cosa vuole che sia…”
 Ed eccomi nella duplice veste di supplente cuoco e supplente maestro di 
        una scuola di montagna.
 Certo le scuole di montagna sono un'altra cosa e non solo per la dislocazione, 
        ma per la loro tipicità e, ben inteso, per quella della gente che 
        lì vive.
 Unendo le mie due nuove professionalità ricalcai il menu della 
        signora Alice e riuscii ad organizzare interessanti lezioni sull’acqua 
        che bolle, sul vapore, su come si debba condire l’insalata mettendo 
        prima il sale e l’aceto e solo dopo l’olio in modo da evitare 
        che quest’ultimo imprigioni i batteri, su che cosa sono i batteri… 
        Come stavano attenti i bimbi! “Lo maître” non era solo 
        il maestro, l’infermiere, lo psicologo, il confessore, per il più 
        piccolo anche il papà (come ogni tanto mi chiamava diventando tutto 
        rosso…), ma sapeva anche fare il cuoco!
 Tutto con estrema naturalezza e semplicità. Ora, anche nelle scuole 
        di montagna, sono arrivati la 626, i Nas, e i dietologi: tutto a norma 
        di legge, ma quanto a misura d’uomo?
 Pier Angelo Rosset 
 La generazione di “Camera 
        cafè” L’intervallo è e resterà sempre, 
        nell'immaginario di tutti, il momento più bello della giornata 
        scolastica, dalle elementari alle superiori. Non per niente si chiama 
        anche “ricreazione”: il suono della campanella dà finalmente 
        il permesso di “resettare” completamente il cervello per dedicarsi 
        a cose più utili della materia appena ascoltata, tipo i pettegolezzi 
        sulle compagne, la corsa ai bagni, i programmi per il pomeriggio o il 
        fondamentale problema stomaco-da-riempire.Quando frequentavo la scuola media non mi interessava molto fare uno spuntino 
        a metà della mattina e anche per la maggior parte dei miei compagni 
        era così.
 Quando sono sbarcata al liceo scientifico, saranno state le macchinette 
        delle lattine, le macchinette del caffè, le macchinette con le 
        pizzette, le focacce, il cioccolato, insomma, tutto questo ben di Dio 
        ha contribuito a farmi venire un certo languorino!
 In effetti la giornata scolastica è piuttosto lunga, perfino se 
        si fa un’abbondante colazione. Verso le 11.30 (il secondo intervallo!) 
        la pancia comincia a emettere strani rumori. Molti ragazzi che vengono 
        a scuola da fuori Aosta si alzano presto al mattino e alle sei non hanno 
        granché voglia di mangiare, quindi è naturale che abbiano 
        fame dopo. Per questo c'è chi si porta la merenda da casa e chi 
        preferisce l'ebbrezza delle macchinette, anche con il rischio di arrivare 
        tardi e non trovare più la pizzetta o le schiacciatine e tornarsene 
        a mendicare qualcosa dai compagni.
 Quest'anno, nella mia classe sta tornando di moda la frutta: c'è 
        chi porta una mela, chi dei mandarini o dell'uva, ma c'è anche 
        chi persiste col “paninazzo” pieno di qualsiasi cosa e chi 
        resiste senza mangiare tutte le sei ore.
 Certo non è escluso che ci siano persone che non hanno fame, ma 
        è difficile resistere alle provocanti proposte della “macchinetta”, 
        la vera protagonista dell’intervallo. Tutti la prendono d'assalto 
        appena suona la campanella, forse proprio per quel sentore di libertà 
        che emana, quasi condisse le sue offerte alimentari con un sapore di indipendenza, 
        consentendo un’evasione personalissima dalla gabbia delle merendine 
        casalinghe, di routinaria confezione materna.
 Molta gente preferisce bere anche solo qualcosa di caldo e dolce che ridia 
        energia, piuttosto che mangiare proprio qualcosa. Così davanti 
        alla macchinetta del caffè le code sono interminabili e si perdono 
        in questo modo tutti i dieci minuti dell’intervallo. È tempo 
        però considerato ben speso da chi torna in classe trionfante con 
        il bicchierino di cappuccino bollente e il bastoncino di plastica annegato 
        dentro. Davanti alla macchinetta si ricrea davvero un mondo a sé, 
        una dimensione di incontro o di ritrovo fra appartenenti a classi diverse, 
        un limbo in cui studenti e insegnanti convivono in maniera paritaria e, 
        quasi tutti, aspettano pazientemente il proprio turno. Quasi, perché 
        i primini tentano sempre di sgattaiolare avanti e questo dà molto 
        fastidio a quelli di quinta (un po' di sano nonnismo è essenziale).
 Il vero dramma è quando si arriva davanti alla macchinetta e la 
        si trova spenta, con le sue merendine che dormono nell'ombra, inafferrabili 
        e indifferenti alla tua fame. In questi drammatici momenti l'unica è 
        farsi forza fra compagni. È in queste occasioni che il compagno 
        col “paninazzo” scopre di avere un mucchio di amici…
 Francesca Giono Calvetto 
 Immaginiamo un piatto di 
        spaghetti Immaginiamo un invito a cena. Immaginiamo un buon piatto 
        di spaghetti allo scoglio pre-parati e serviti dalla mia cara amica (disabile) nella sua casa, in cui 
        vive da tempo. Immaginiamo… ci riusciamo?
 “A Casapiù ci vado il sabato e la domenica, faccio la 
        spesa, porto i soldi, li conto, si va a mangiare la pizza, andiamo in 
        discoteca, stiamo fuori con gli amici, ci facciamo il caffè. Mamma 
        e papà non vengono, papà è un bravo ragazzo, mamma 
        è carina però ci vuole un pochino d’aria. Mamma e 
        papà stanno a casa loro”.
 “Il mio futuro lo immagino in un’altra casa, i miei rimangono 
        in via Pasquale 11, a casa loro, poi forse quando sono anziani vanno a 
        Santa Marinella o al centro anziani”.
 “A Casa Fiordaliso aiuto a fare tante cose: cucinare, lavare i piatti 
        e fare la spesa e riordinare la Casa Fiordaliso”.
 Esiste da pochi anni, al massimo una decina, non di più. Ma il 
        concetto di Progetto di Vita per le persone disabili è 
        diventato un forte punto di riferimento per immaginare percorsi di reale 
        autonomia, di inclusione nella società solidale e
 di integrazione tra i servizi. Immaginare… questo è il punto: 
        “Come immagina suo figlio adulto?”. L’idea 
        di concepire un progetto per la persona disabile che la possa inserire 
        a tutti gli effetti e da protagonista nella società degli adulti 
        è, nella nostra società, cosa recente. Così recente 
        che discutere di adultità significa discutere work in progress, 
        di una condizione umana e psicologica che si sta delineando, potremmo 
        dire, in tempo reale sotto i nostri occhi e del cui esito noi siamo protagonisti” 
        (Carlo Lepri). L’immagine del disabile adulto è 
        ancora sovente sconosciuta all’esperienza e alla legge stessa. Soltanto 
        negli ultimi quindici anni la normativa, infatti, ha iniziato a considerare 
        possibile l’inserimento lavorativo dei disabili mentali ed intellettivi; 
        prima, queste persone erano considerate “incapaci di lavorare”. 
        Se ne deduce, quindi, che “la legge, intesa come uno dei modi che 
        la cultura ha di manifestarsi, considerando queste persone non idonee 
        al lavoro le considerava, al tempo stesso, non idonee a diventare adulte” 
        (Carlo Lepri).
 Questo è il punto: proviamo un po’ ad immaginare 
        che il tempo non abbia, per una persona disabile, solo la dimensione del 
        presente (l’eterno bambino), ma anche quella del futuro. Cosa 
        immaginiamo di metterci dentro a questo futuro?
 Il cibo, innanzitutto. Perché si mangia tante volte al giorno, 
        perché per mangiare occorre guadagnare i denari per fare la spesa, 
        scegliere e comperare, conservare, cucinare, apparecchiare una tavola 
        appropriata e sfiziosa, invitare amici o parenti per gustare i cibi, preparare 
        il caffè… perché mangiare bene è bello, perché 
        mangiando con la giusta compagnia si digeriscono anche i cavoli a merenda.
 Certamente, tutto questo comporta un Progetto di Vita che consideri la 
        promozione, il consolidamento ed il mantenimento di abilità 
        di autonomia quali la cura dell’ambiente di vita, le abilità 
        domestiche, l’uso di denaro, orologio e telefono, la capacità 
        di spostarsi in modo autonomo. Tutto questo ci obbliga ad immaginare il 
        futuro, costruendolo sul presente. Tutto questo significa scommettere 
        sull’uomo e sulle sue risorse, per immaginare le persone disabili 
        non (soltanto) come un peso ed un dovere di presa in carico, ma (soprattutto) 
        come una chance in più per poter, ad esempio, gustare 
        insieme, nella loro casa e da loro preparato, un saporito piatto di pastasciutta 
        ed un bicchiere di buon vino.
 Fabrizio De André lo racconta così bene nelle metafore, 
        nei giochi di parole e nei rimandi musicali di Ottocento (proviamo 
        a riascoltarla e a pensarci su un pochino, ne vale la pena): essere adulti, 
        secondo i valori tipici della borghesia ottocentesca, significava rispettare 
        ed assolvere ad alcuni compiti (uscire da scuola, iniziare a lavorare, 
        lasciare la famiglia di origine, selezionare il compagno o la compagna, 
        trovare casa, sposarsi, definire l’attività professionale, 
        diventare genitori, ecc.). Essere adulti oggi significa saper immaginare 
        un futuro per noi stessi e per la società in cui si vive.
 “Mi sembra si possa dire – ci aiuta a concretizzare Carlo 
        Lepri - che il percorso verso una condizione di adultità segue 
        oggi strade e sentieri molto soggettivi. Per questo preferirei parlare 
        non di una, ma di “tante adultità possibili”, correlando, 
        per le persone disabili, queste varie adultità alla possibilità 
        di vivere in modo consapevole e responsabile l’accesso, anche se 
        parziale, ai ruoli che caratterizzano questa età della vita".
 Dunque: “Buon appetito, cari amici, vi piacciono gli spaghettini 
        che vi ho preparato?”
 
        
          | Ottocento |  
          | Cantami di questo tempo
 l'astio e il malcontento
 di chi è sottovento
 e non vuol sentir l'odore
 di questo motore
 che ci porta avanti
 quasi tutti quanti
 maschi, femmine e cantanti
 su un tappeto di contanti
 nel cielo blu
 Figlia della mia famiglia sei la meraviglia
 già matura e ancora pura
 come la verdura di papà
 Figlio bello e audace bronzo di Versace
 figlio sempre più capace
 di giocare in borsa
 di stuprare in corsa tu
 moglie dalle larghe maglie
 dalle molte voglie
 esperta di anticaglie
 scatole d'argento ti regalerò
 Ottocento Novecento
 Millecinquecento scatole d'argento
 fine Settecento ti regalerò
 Quanti pezzi di ricambio quante meraviglie
 quanti articoli di scambio
 quante belle figlie da sposar
 e quante belle valvole e pistoni
 fegati e polmoni
 e quante belle biglie a rotolar
 e quante belle triglie nel mar
 Figlio figlio povero figlio
 eri bello bianco e vermiglio
 quale intruglio ti ha perduto nel Naviglio figlio figlio
 unico sbaglio
 annegato come un coniglio
 per ferirmi, pugnalarmi nell'orgoglio
 a me a me
 che ti trattavo come un figlio
 povero me
 domani andrà meglio
 Ein klein Pinzimonie wunder Matrimonie
 Kräuten und Erdbeeren
 und Patellen und Arsellen
 fischen Zanzibar
 und einige Krapfen
 früer vor schlafen
 und erwachen mit Walzer
 und Alka-Seltzer für
 dimenticar(1)
 Quanti pezzi di ricambio quante meraviglie
 quanti articoli di scambio
 quante belle figlie da sposar
 e quante belle valvole e pistoni
 fegati e polmoni
 e quante belle biglie a rotolar
 e quante belle triglie nel mar.
 Fabrizio De André (1)  Un piccolo pinzimonio
 splendido matrimonio
 cavoli e fragole
 e patelle ed arselle
 pescate a Zanzibar
 e qualche krapfen
 prima di dormire
 ed un risveglio con valzer
 e un Alka-Seltzer per
 dimenticar.
 |    Paolo Salomone (I contributi di Carlo Lepri sono 
        tratti dal suo intervento al convegno sulla residenzialità di disabili 
        intellettivi “Il loro futuro ha una casa”, organizzato dall’Associazione 
        Italiana Persone Down a Roma, il 10-11 dicembre 2004).
 Alla mensa di Moron Ida Brunet, che per una ventina d’anni ha preparato 
        il pranzo ai bambini della scuola di Moron, un villaggio sulla collina 
        di Saint-Vincent, ci ha accolto in casa sua. Sulla parete dell’ingresso, 
        in bella mostra, troneggia un grande dipinto realizzato dagli alunni della 
        materna della sua scuola.Ci parla con piacere della sua avventura lavorativa.
 - Per caso, sono diventata cuoca a Moron. Prima vivevo e lavoravo a Torino. 
        Alla fine degli anni ’60, sono dovuta tornare a Moron per ragioni 
        di famiglia.
 Un giorno, il sindaco mi ha chiesto se volessi sostituire la cuoca di 
        Moron che si era ammalata. Non era il mio mestiere, ma sapevo fare da 
        mangiare. Così ho risposto: “Ci provo!” Quando sono 
        entrata in quella scuola mi sono cadute le braccia. La prima cosa che 
        ho fatto, per diversi giorni, è stata pulire i pavimenti. La cucina 
        e il refettorio erano in uno stato pietoso. In cucina c’erano soltanto 
        una stufa a due buchi e due pentole piccole piccole. Come si poteva preparare 
        da mangiare a venti bambini con solo due pentole? Quell’anno ho 
        veramente tribolato.
 Non c’erano tovaglioli, né tovaglie, né asciugamani. 
        Come facevano i bambini ad asciugarsi le mani? Così ho cominciato 
        a portare qualcosa da casa mia e a chiedere il necessario al comune.
 All’inizio, qualche genitore non capiva le mie richieste e mi rimproverava 
        di avere pretese cittadine. “Viene da Torino. Cosa crede di fare? 
        Siamo sempre andati bene così!”
 Con il passare degli anni, la situazione è migliorata; la mia cucina 
        è stata attrezzata di tutto il necessario.
 Nei primi tempi, solo il pane si acquistava sul posto. Tutti i rifornimenti 
        provenivano da Aosta. Ricevevo sacchi enormi di una pasta integrale grigia 
        e lattoni di conserva da 5 kg. Conservare il contenuto di queste grosse 
        scatole, una volta aperte, era un vero problema.
 Sempre da Aosta ci mandavano del formaggio rosso che non piaceva ai bambini.
 Le razioni, non erano sempre adeguate. Come fa un bambino a stare fuori 
        casa tutto il giorno mangiando un po’ di pasta e un solo formaggino?
 Se poi arrivava la marmellata, non arrivava il formaggio. Il pranzo era 
        proprio misero.
 Con il passare del tempo, la situazione è migliorata; potevamo 
        fare direttamente la spesa in tre negozi autorizzati.
 Potevo variare il tipo di pasta: farfalle, gnocchetti, spaghetti, non 
        sempre i soliti ditalini.
 I bambini amano la varietà nel cibo. A quei tempi, qualcuno di 
        loro, a casa, era solito cenare a pane e latte. Cercavo sempre di preparare 
        qualche piatto che piacesse ai bambini, stando attenta a proporre dei 
        pasti equilibrati. Tutti mangiavano volentieri.
 Invitavo sovente le mamme a passare dalla cucina per vedere che cosa preparavo 
        per i loro figli, con quanto amore cercavo di venire incontro ai loro 
        desideri.
 Condivo la pasta in bianco con il sugo dell’arrosto: ai bambini 
        piaceva da morire!
 Mi ricordo una bambina, che non amava l’insalata. Un giorno, ho 
        visto che la prendeva dal piatto e se la metteva in tasca. Non l’ho 
        sgridata, ma l’ho presa da parte e le ho detto: “Se non ti 
        piace, chiedi solo una foglia. Se metti l’insalata in tasca, ti 
        macchi d’unto e le maestre se ne accorgono”. Seria, seria 
        mi ha risposto: “Ma poi, vado ai gabinetti e la butto!”
 Ogni tanto qualche bambino mi aiutava, ma mai vicino ai fornelli! Dopo 
        essersi lavato le manine, apparecchiava o lavava la frutta.
 Con gli anni, il numero dei bambini è aumentato, sino a novanta, 
        ed è arrivata Maura(1) ad aiutarmi.
 Insieme preparavamo da mangiare, pulivamo; trovavamo anche
 il tempo di partecipare con i bambini ai lavori manuali organizzati dalla 
        maestra Marcella(2).
 Scendevano in refettorio a disegnare, a fare la stampa. Io, poi, che ero 
        capace a cucire, insegnavo a qualcuno a tenere l’ago in mano.
 Non riesco a tornare alla scuola di Moron, perché i ricordi di 
        quei tempi mi commuovono ancora. Pochi giorni fa, un signore, di una trentina 
        d’anni, mi ha fermata per strada e mi ha chiesto: “Ida, non 
        ti ricordi di me? Sono Mauro? Quand’è che mi cucini di nuovo 
        il risotto?”
 Ida Brunet Note(1) Maura Truchet, aiuto cuoca. A partire dal 1992, superato il concorso, 
        è diventata cuoca titolare. Svolge tuttora la sua attività 
        nella scuola di Moron.
 (2) Marcella Polese, per più di dieci anni è stata insegnante 
        e sorvegliante in tempo mensa nella scuola di Moron.
 
 Professionisti della ristorazione  É stato soprattutto l’interesse per il 
        sociale a fare nascere, nel 1983, la Cooperativa “Noi e gli Altri”. 
        Cristina Monami ne è la Presidente. La cooperativa è impegnata 
        in molti degli ambiti del sociale, ma, in particolare, si occupa di fornire 
        alle scuole l’assistenza alle mense ed ai Comuni la fornitura dei 
        pasti caldi.Un settore difficile perché tocca gli alunni sui quali, giustamente, 
        viene posta un’attenzione forte da parte dall’ente pubblico, 
        dei genitori, degli operatori scolastici e per i quali è necessario 
        prestare una continua attenzione ad aspetti delicati quali l’appetibilità 
        di un menù, la sua correttezza alimentare e l’equilibrio 
        compositivo.
 Definire un menu è uno dei 
        punti più critici della vostra attività. Quali criteri avete 
        seguito per farlo? Quali esperti avete consultato?Si tratta di un elemento talmente importante da diventare la discriminante 
        nel definire la gara d’appalto, ed è proprio su questa base 
        che noi l’abbiamo vinta. Il Comune di Aosta ha apprezzato il nostro 
        menu che, peraltro, era il frutto di lunghe riflessioni fatte con esperti 
        di alimentazione dell’età evolutiva. L’idea di fondo 
        era quella di rompere con la tradizione ripetitiva che proponeva ciclicamente 
        sempre gli stessi piatti. Abbiamo, ad esempio, introdotto la pasta con 
        le lenticchie, il brasato con la polenta, le penne con il sugo di tonno, 
        i fusilli alle melanzane, i cuori di salmone al forno ed altri. I principi 
        che hanno guidato gli esperti nella scelta del menu sono stati due: offrire 
        dei cibi ineccepibili dal punto di vista nutrizionale e un menu vario.
 Il menu è piaciuto subito a noi, ai cuochi e al Comune. Qualche 
        sconcerto lo abbiamo rilevato da parte degli utenti. Sovente i bambini 
        sono abituati a mangiare continuamente le medesime cose. Un altro punto 
        al quale abbiamo fatto attenzione, nella sua definizione, è quello 
        di fare un po’ di educazione alimentare proponendo cibi molto variati 
        nel gusto e nel tipo in modo tale da far abituare i ragazzi a mangiare 
        di tutto.
 La monorazione non è molto 
        ben accetta in genere. Perché questa scelta e come fate a far giungere 
        sulla tavola dei ragazzi il cibo ancora caldo?Abbiamo una cucina in Aosta che tutte le mattine prepara cibi freschi 
        per le mense scolastiche. Si tratta di una cucina bella, anzi, non esito 
        a dirlo, la più bella di tutta la Valle e la più all’avanguardia, 
        un forte investimento del quale siamo estremamente soddisfatti. Il cibo 
        viene messo in contenitori termici che sono in grado di tenerlo caldo 
        per il periodo necessario ad uno spostamento di 30-40 chilometri, anche 
        se le scuole che serviamo non distano mai più di 5-6 chilometri 
        dalla cucina. Questi contenitori sono tenuti caldi tramite la corrente 
        elettrica e, quando arrivano nelle scuole, possono essere nuovamente attaccati 
        ad una presa per mantenere il cibo in temperatura fino al momento del 
        consumo. Questa cucina produce i pasti in piatti sigillati monodose, utilizzando 
        un’attrezzatura che evita qualunque intervento manuale. Servire 
        il cibo in piatti a perdere offre notevoli vantaggi come, ad esempio, 
        quello di evitare qualunque manipolazione dopo il momento della produzione. 
        Certo c’è il consumo della plastica, ma il vantaggio igienico 
        è evidente. Il problema semmai deriva dal fatto che la monorazione 
        comporta una concentrazione di odori e di calore che rende la presentazione 
        esteticamente meno efficace. D’altra parte, utilizzare dei piatti 
        in ceramica comporterebbe problemi sanitari ed economici quale, ad esempio, 
        quello di dover dotare ogni scuola di una lavastoviglie per grandi comunità.
 Si sa che i genitori sono molto 
        esigenti riguardo all’alimentazione dei figli. Riuscite a coinvolgerli 
        nelle vostre scelte in modo da evitare successive proteste?Il coinvolgimento dei genitori fa parte del progetto di educazione alimentare 
        che vogliamo realizzare. Ad onor del vero, gli incontri con gli esperti 
        di alimentazione che abbiamo organizzato durante lo scorso anno scolastico 
        non hanno avuto un grande riscontro di pubblico. Li abbiamo molto propagandati, 
        ma la partecipazione è stata bassa. Ma non demordiamo perché 
        riteniamo fondamentale, visto anche il gran numero di malattie prevenibili 
        con un’alimentazione adeguata, che ci si scambino le idee su questo 
        soggetto. Anche perché i valori nutrizionali non sono gli unici 
        parametri da tenere presenti. È altrettanto importante la conoscenza 
        dei gusti dei ragazzi. Le nostre scelte, in tutti i casi, sono di tipo 
        nutrizionale e vanno spiegate al grande pubblico altrimenti, talvolta, 
        possono risultare incomprensibili.
 Le norme igieniche sono giustamente 
        molto rigide per quanto riguarda la ristorazione. Come fate a tenere sotto 
        controllo questo aspetto?Le frequenti e inaspettate visite di Vigili sanitari e dei Nas, visti 
        gli esiti, non ci preoccupano affatto anzi ci consentono di confermare 
        la qualità del nostro lavoro. è giusto che ci siano e sono 
        una garanzia anche per noi, attestano che il nostro lavoro è svolto 
        in modo serio, scrupoloso e igienicamente ineccepibile. Siamo fieri dei 
        complimenti che ci sono stati fatti per la pulizia, la conduzione delle 
        cucine e la professionalità del nostro personale.
 É cambiato notevolmente 
        il profilo del personale addetto alle mense e sono cambiate anche le attività 
        richieste e proposte. Cosa fate per il dopo pasto?Il personale animativo ha un progetto di lavoro. Noi abbiamo due obiettivi: 
        favorire lo stacco tra l’attività scolastica del mattino 
        e quella del pomeriggio e ridurre, nel momento della refezione, la pressione 
        alla quale gli alunni sono sottoposti nell’attività scolastica. 
        Si tratta di presentare agli alunni proposte morbide e non impositive 
        per concedere loro una vera e propria “tregua”. Per fare questo 
        scegliamo persone che abbiano almeno conseguito un diploma, che dimostrino 
        buona capacità di comunicazione e meglio ancora se hanno figli... 
        Abbiamo anche cura che si tratti di persone giovani, ma affiancate da 
        persone più mature. Così facendo, possiamo offrire una vasta 
        gamma di atteggiamenti e modalità di relazione a coloro che usufruiscono 
        della refezione. Un altro obiettivo che ci proponiamo e che chiediamo 
        al personale di realizzare è quello di rendere le stanze più 
        gradevoli. Spesso, durante il dopo pranzo, vengono effettuati lavori di 
        ottima qualità. Abbiamo anche dotato ogni gruppo di cancelleria 
        varia, giochi da tavola, attrezzi e gli immancabili palloni di spugna 
        per permettere ai maschi e alle femmine di soddisfare questo desiderio. 
        Non crediamo sia possibile utilizzare solo giochi di società perché 
        si devono tenere in considerazione sia i bambini più vivaci sia 
        quelli più tranquilli.
 Inoltre, all’interno della nostra cooperativa, siamo in grado di 
        provvedere una rete di professionalità specifiche per gli alunni 
        diversamente abili. In queste situazioni, prima di prendere in carico 
        il bambino con i suoi problemi e le sue difficoltà, ci confrontiamo 
        con l’équipe territoriale, con le insegnanti che lo hanno 
        in classe, con il bambino stesso e la sua famiglia.
 Refettori rumorosi e spazi per 
        il dopo pranzo disagevoli. Le scuole difficilmente sono state costruite 
        tenendo presente che ci sarà una mensa. Come si risolve questo 
        problema?Quando per il dopo pasto siamo costretti ad utilizzare i corridoi della 
        scuola, come gestire questo spazio diventa un problema. La maggior parte 
        delle volte le scuole non dispongono di altro, allora le attività 
        possono divenire demotivanti e anche l’attività educativa 
        rischia di non raggiungere lo scopo che si prefigge.
 Circa la rumorosità dei locali adibiti alla refezione, riteniamo 
        sia impossibile convincere i bambini a non parlare a tavola. Non solo, 
        non siamo neppure convinti che sia corretto. Il momento del pasto è 
        spesso quello in cui il bambino ha uno spazio per raccontare, per confrontarsi 
        con gli adulti e i compagni, per confrontare le proprie esperienze extra 
        scolastiche. è il momento in cui può parlare con un adulto 
        di argomenti non scolastici. Proprio in questi momenti i bambini raccontano 
        molte cose della propria vita. È in questo spazio che si mostrano 
        le diverse personalità. E questo è possibile perché 
        si tratta di un momento particolare della giornata, un momento in cui 
        si è rilassati. Certo, se le pareti e il soffitto fossero dotati 
        di pannelli fonoassorbenti la vivibilità sarebbe tutt’altra.
 È facile immaginare che 
        è necessario un lavoro di équipe per organizzare una struttura 
        così complessa.Abbiamo, all’interno del nostro staff, un laureato che coordina 
        il servizio. La responsabilità della gestione del personale, la 
        fornitura dei pasti e le attività didattiche ricadono sotto la 
        sua diretta responsabilità. Nella nostra équipe sono presenti 
        anche due psicologi che rappresentano un chiaro punto di riferimento per 
        le problematiche di tipo psicologico e didattico. Sono previsti incontri 
        periodici per analizzare quanto accade. Una psicologa è attiva 
        nel nostro staff a tempo pieno e funge anche da coordinatrice delle attività 
        animative, mentre l’altra collabora con noi fornendo una supervisione 
        generale di tipo psicologico.
 Uno dei nostri punti di forza, in questo ambito, sono le riunioni settimanali 
        che ci permettono di favorire il passaggio di competenze, esperienze e 
        di conoscenze assumendole da tutti le attività della cooperativa.
 I vostri assistenti rappresentano 
        la continuità rispetto al docente. Si tratta sempre di un incontro di personalità e di professionalità 
        diverse. I due ruoli non coincidono, ma si agisce comunque su bambini. 
        Il dialogo tra insegnanti e assistenti è spesso costruttivo. Certamente 
        ci sono delle situazioni in cui ci sono stati problemi di comunicazione, 
        ma, nella maggior parte dei casi, soprattutto là dove sussistono 
        delle difficoltà, si è cercato di superarle con la buona 
        volontà da parte di entrambi e quasi sempre ci si è riusciti.
 Intervista a Cristina Monami 
 
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