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Una scuola che profuma di cibo

Ore 12: tutti a tavola!

Il mio pensiero va spesso alla cuoca della scuola del paese dove ho prestato il mio primo anno di servizio (santa donna!) che, verso le 10 del mattino, passava in classe a salutarci e ad annunciarci il menù della giornata… Avevamo così ben due ore per pregustarlo, aiutati nel piacevole compito dai profumini che provenivano dalla cucina-refettorio adiacente alle aule.
Anche nella scuola dove insegno adesso, in città, il refettorio è adiacente alle aule, anzi ce ne sono tre, ma di profumini neanche l’ombra!
Fino al momento dell’apertura dei piatti contenenti i pasti preconfezionati, il nostro refettorio odora di un anonimo profumo di pulito.
In realtà, tutto risulta un po’ anonimo: le tovagliette di carta sui tavoli, le posate di plastica, il cibo poco saporito…
Eppure l’inserviente fa di tutto per rendere accogliente il refettorio: disegni alle pareti, pitture a tema sui vetri delle finestre…
Sarà che usufruisco del servizio di refezione scolastica da circa vent’anni e malgrado l’alternanza delle varie cooperative che lo gestiscono non ho visto grandi cambiamenti, sarà che il mio pasto da adulto è esattamente uguale per caratteristiche qualitative a quello di un bambino di tre anni, sarà che devo dividerlo con la mia collega di sezione (abbiamo diritto a un pasto in due), sarà…
Il verbo piacere non sopporta l’imperativo.
Allora penso che mangiare insieme, come giocare insieme, sia una grande occasione per conoscersi e per conoscere, per sentirsi rassicurati e accolti, per pensarsi come soggetto ricco di idee, emozioni ed esperienze.
E questo mi basta.

Arianna Montini

L’insegnante che faceva anche il cuoco

Sono ormai molti anni che non frequento più le scuole, se non per sporadici interventi relativi all’informatica, ma non posso fare a meno di ricordare alcuni trascorsi da maestro (chissà perché insegnante non rende l’idea?) in quelle scuole di paese indissolubilmente legate alle cantines, adesso Restaurants scolaires.
Una supplenza di quindici giorni in un paesino della Coumba Freide. Il cuoco, che era anche vigile del fuoco, messo comunale, autista dello scuolabus (scuolabus è una parola grossa, era una vecchia Land Rover che ancora adesso sento cigolare…), becchino, postino e chissà cos’altro ancora, mi aveva stupito perché aveva variato ogni giorno il menu: dall’arrosto, allo spezzatino, al bollito, agli sgombri, ai mitici bastoncini del Capitano, di tutto era passato sulla nostra tavola! Lo vedo ancora in una mattina d’inverno, di buon’ora, venire verso la scuola, sotto una copiosa nevicata, portando due tacchini, allegro e sorridente.
E che dire delle polpette di Silvana, così buone, ma così buone che una mia collega, una volta sì e l’altra pure, faceva indigestione; o di Ida e Maura che, ogni tanto, ci deliziavano con piatti sfiziosi come lo zuccotto di riso foderato di prosciutto cotto.
In quelle scuole, la cucina era nello stesso edificio delle aule. A metà mattina, già sapevi cosa avresti mangiato a mezzogiorno. L’aria era sempre piena di profumi che lanciavano messaggi appetitosi.
Una volta, da un paesino sopra Aosta, momentaneamente isolato da un’inaspettata e tardiva nevicata, mi hanno telefonato per chiedermi se potessi, prima di provare a salire, passare a prendere il pane per tutta la frazione. Nonostante la gloriosa 500 di mia madre, con tanto di catene, non riuscii ad arrivare fino alla scuola. Ma il pane sì. Una provvidenziale campagnola della Forestale era passata di lì e l’aveva caricato.
Sembrerà strano, ma ho supplito anche il cuoco. Insegnavo, più di vent’anni fa, in una scuola frequentata solo da tre bambini, ovviamente di tre classi diverse. Tra il capoluogo e la frazione c’era un punto della strada esposto alle valanghe e quindi non si poteva, d’inverno, rischiare di spostare i bambini (il maestro, invece…). Tutti i giorni ricevevo “la comanda” dalla cuoca per la macelleria del fondo valle. La cuoca, la signora Alice, che di maestrini come me ne aveva visti tanti, aveva l’aspetto serio, quasi burbero, ma aveva un cuore grande come una casa. Tutte le mattine “il maestro”, che, con il sindaco, il prete e il farmacista, faceva parte delle autorità del paese, passava dalla macelleria e portava a scuola la carne, gli affettati e tutto quello che non si trovava nel negozietto del paese. Ma un giorno la signora Alice si ammalò. Il sindaco, non sapendo come fare a sostituirla, avrebbe dovuto chiudere la refezione per alcuni giorni con il rischio che le famiglie tenessero a casa i bambini.
Forse per il senso di appartenenza ad una comunità, forse semplicemente per l’incoscienza dei miei vent’anni, dissi di slancio: “Non si preoccupi, se vuole faccio io da mangiare anche per i bambini, tanto dovrei farlo per me”.
“Ma davvero lo farebbe?”
“Certo, cosa vuole che sia…”
Ed eccomi nella duplice veste di supplente cuoco e supplente maestro di una scuola di montagna.
Certo le scuole di montagna sono un'altra cosa e non solo per la dislocazione, ma per la loro tipicità e, ben inteso, per quella della gente che lì vive.
Unendo le mie due nuove professionalità ricalcai il menu della signora Alice e riuscii ad organizzare interessanti lezioni sull’acqua che bolle, sul vapore, su come si debba condire l’insalata mettendo prima il sale e l’aceto e solo dopo l’olio in modo da evitare che quest’ultimo imprigioni i batteri, su che cosa sono i batteri… Come stavano attenti i bimbi! “Lo maître” non era solo il maestro, l’infermiere, lo psicologo, il confessore, per il più piccolo anche il papà (come ogni tanto mi chiamava diventando tutto rosso…), ma sapeva anche fare il cuoco!
Tutto con estrema naturalezza e semplicità. Ora, anche nelle scuole di montagna, sono arrivati la 626, i Nas, e i dietologi: tutto a norma di legge, ma quanto a misura d’uomo?

Pier Angelo Rosset

La generazione di “Camera cafè”

L’intervallo è e resterà sempre, nell'immaginario di tutti, il momento più bello della giornata scolastica, dalle elementari alle superiori. Non per niente si chiama anche “ricreazione”: il suono della campanella dà finalmente il permesso di “resettare” completamente il cervello per dedicarsi a cose più utili della materia appena ascoltata, tipo i pettegolezzi sulle compagne, la corsa ai bagni, i programmi per il pomeriggio o il fondamentale problema stomaco-da-riempire.
Quando frequentavo la scuola media non mi interessava molto fare uno spuntino a metà della mattina e anche per la maggior parte dei miei compagni era così.
Quando sono sbarcata al liceo scientifico, saranno state le macchinette delle lattine, le macchinette del caffè, le macchinette con le pizzette, le focacce, il cioccolato, insomma, tutto questo ben di Dio ha contribuito a farmi venire un certo languorino!
In effetti la giornata scolastica è piuttosto lunga, perfino se si fa un’abbondante colazione. Verso le 11.30 (il secondo intervallo!) la pancia comincia a emettere strani rumori. Molti ragazzi che vengono a scuola da fuori Aosta si alzano presto al mattino e alle sei non hanno granché voglia di mangiare, quindi è naturale che abbiano fame dopo. Per questo c'è chi si porta la merenda da casa e chi preferisce l'ebbrezza delle macchinette, anche con il rischio di arrivare tardi e non trovare più la pizzetta o le schiacciatine e tornarsene a mendicare qualcosa dai compagni.
Quest'anno, nella mia classe sta tornando di moda la frutta: c'è chi porta una mela, chi dei mandarini o dell'uva, ma c'è anche chi persiste col “paninazzo” pieno di qualsiasi cosa e chi resiste senza mangiare tutte le sei ore.
Certo non è escluso che ci siano persone che non hanno fame, ma è difficile resistere alle provocanti proposte della “macchinetta”, la vera protagonista dell’intervallo. Tutti la prendono d'assalto appena suona la campanella, forse proprio per quel sentore di libertà che emana, quasi condisse le sue offerte alimentari con un sapore di indipendenza, consentendo un’evasione personalissima dalla gabbia delle merendine casalinghe, di routinaria confezione materna.
Molta gente preferisce bere anche solo qualcosa di caldo e dolce che ridia energia, piuttosto che mangiare proprio qualcosa. Così davanti alla macchinetta del caffè le code sono interminabili e si perdono in questo modo tutti i dieci minuti dell’intervallo. È tempo però considerato ben speso da chi torna in classe trionfante con il bicchierino di cappuccino bollente e il bastoncino di plastica annegato dentro. Davanti alla macchinetta si ricrea davvero un mondo a sé, una dimensione di incontro o di ritrovo fra appartenenti a classi diverse, un limbo in cui studenti e insegnanti convivono in maniera paritaria e, quasi tutti, aspettano pazientemente il proprio turno. Quasi, perché i primini tentano sempre di sgattaiolare avanti e questo dà molto fastidio a quelli di quinta (un po' di sano nonnismo è essenziale).
Il vero dramma è quando si arriva davanti alla macchinetta e la si trova spenta, con le sue merendine che dormono nell'ombra, inafferrabili e indifferenti alla tua fame. In questi drammatici momenti l'unica è farsi forza fra compagni. È in queste occasioni che il compagno col “paninazzo” scopre di avere un mucchio di amici…

Francesca Giono Calvetto

Immaginiamo un piatto di spaghetti

Immaginiamo un invito a cena. Immaginiamo un buon piatto di spaghetti allo scoglio pre-
parati e serviti dalla mia cara amica (disabile) nella sua casa, in cui vive da tempo. Immaginiamo… ci riusciamo?
“A Casapiù ci vado il sabato e la domenica, faccio la spesa, porto i soldi, li conto, si va a mangiare la pizza, andiamo in discoteca, stiamo fuori con gli amici, ci facciamo il caffè. Mamma e papà non vengono, papà è un bravo ragazzo, mamma è carina però ci vuole un pochino d’aria. Mamma e papà stanno a casa loro”.
“Il mio futuro lo immagino in un’altra casa, i miei rimangono in via Pasquale 11, a casa loro, poi forse quando sono anziani vanno a Santa Marinella o al centro anziani”.
“A Casa Fiordaliso aiuto a fare tante cose: cucinare, lavare i piatti e fare la spesa e riordinare la Casa Fiordaliso”.

Esiste da pochi anni, al massimo una decina, non di più. Ma il concetto di Progetto di Vita per le persone disabili è diventato un forte punto di riferimento per immaginare percorsi di reale autonomia, di inclusione nella società solidale e
di integrazione tra i servizi. Immaginare… questo è il punto: “Come immagina suo figlio adulto?”. L’idea di concepire un progetto per la persona disabile che la possa inserire a tutti gli effetti e da protagonista nella società degli adulti è, nella nostra società, cosa recente. Così recente che discutere di adultità significa discutere work in progress, di una condizione umana e psicologica che si sta delineando, potremmo dire, in tempo reale sotto i nostri occhi e del cui esito noi siamo protagonisti” (Carlo Lepri). L’immagine del disabile adulto è ancora sovente sconosciuta all’esperienza e alla legge stessa. Soltanto negli ultimi quindici anni la normativa, infatti, ha iniziato a considerare possibile l’inserimento lavorativo dei disabili mentali ed intellettivi; prima, queste persone erano considerate “incapaci di lavorare”. Se ne deduce, quindi, che “la legge, intesa come uno dei modi che la cultura ha di manifestarsi, considerando queste persone non idonee al lavoro le considerava, al tempo stesso, non idonee a diventare adulte” (Carlo Lepri).
Questo è il punto: proviamo un po’ ad immaginare che il tempo non abbia, per una persona disabile, solo la dimensione del presente (l’eterno bambino), ma anche quella del futuro. Cosa immaginiamo di metterci dentro a questo futuro?
Il cibo, innanzitutto. Perché si mangia tante volte al giorno, perché per mangiare occorre guadagnare i denari per fare la spesa, scegliere e comperare, conservare, cucinare, apparecchiare una tavola appropriata e sfiziosa, invitare amici o parenti per gustare i cibi, preparare il caffè… perché mangiare bene è bello, perché mangiando con la giusta compagnia si digeriscono anche i cavoli a merenda.
Certamente, tutto questo comporta un Progetto di Vita che consideri la promozione, il consolidamento ed il mantenimento di abilità di autonomia quali la cura dell’ambiente di vita, le abilità domestiche, l’uso di denaro, orologio e telefono, la capacità di spostarsi in modo autonomo. Tutto questo ci obbliga ad immaginare il futuro, costruendolo sul presente. Tutto questo significa scommettere sull’uomo e sulle sue risorse, per immaginare le persone disabili non (soltanto) come un peso ed un dovere di presa in carico, ma (soprattutto) come una chance in più per poter, ad esempio, gustare insieme, nella loro casa e da loro preparato, un saporito piatto di pastasciutta ed un bicchiere di buon vino.
Fabrizio De André lo racconta così bene nelle metafore, nei giochi di parole e nei rimandi musicali di Ottocento (proviamo a riascoltarla e a pensarci su un pochino, ne vale la pena): essere adulti, secondo i valori tipici della borghesia ottocentesca, significava rispettare ed assolvere ad alcuni compiti (uscire da scuola, iniziare a lavorare, lasciare la famiglia di origine, selezionare il compagno o la compagna, trovare casa, sposarsi, definire l’attività professionale, diventare genitori, ecc.). Essere adulti oggi significa saper immaginare un futuro per noi stessi e per la società in cui si vive.
“Mi sembra si possa dire – ci aiuta a concretizzare Carlo Lepri - che il percorso verso una condizione di adultità segue oggi strade e sentieri molto soggettivi. Per questo preferirei parlare non di una, ma di “tante adultità possibili”, correlando, per le persone disabili, queste varie adultità alla possibilità di vivere in modo consapevole e responsabile l’accesso, anche se parziale, ai ruoli che caratterizzano questa età della vita".
Dunque: “Buon appetito, cari amici, vi piacciono gli spaghettini che vi ho preparato?

Ottocento

Cantami di questo tempo
l'astio e il malcontento
di chi è sottovento
e non vuol sentir l'odore
di questo motore
che ci porta avanti
quasi tutti quanti
maschi, femmine e cantanti
su un tappeto di contanti
nel cielo blu

Figlia della mia famiglia
sei la meraviglia
già matura e ancora pura
come la verdura di papà

Figlio bello e audace
bronzo di Versace
figlio sempre più capace
di giocare in borsa
di stuprare in corsa tu
moglie dalle larghe maglie
dalle molte voglie
esperta di anticaglie
scatole d'argento ti regalerò

Ottocento
Novecento
Millecinquecento scatole d'argento
fine Settecento ti regalerò

Quanti pezzi di ricambio
quante meraviglie
quanti articoli di scambio
quante belle figlie da sposar
e quante belle valvole e pistoni
fegati e polmoni
e quante belle biglie a rotolar
e quante belle triglie nel mar

Figlio figlio
povero figlio
eri bello bianco e vermiglio

quale intruglio ti ha perduto nel Naviglio
figlio figlio
unico sbaglio
annegato come un coniglio
per ferirmi, pugnalarmi nell'orgoglio
a me a me
che ti trattavo come un figlio
povero me
domani andrà meglio

Ein klein Pinzimonie
wunder Matrimonie
Kräuten und Erdbeeren
und Patellen und Arsellen
fischen Zanzibar
und einige Krapfen
früer vor schlafen
und erwachen mit Walzer
und Alka-Seltzer für
dimenticar(1)

Quanti pezzi di ricambio
quante meraviglie
quanti articoli di scambio
quante belle figlie da sposar
e quante belle valvole e pistoni
fegati e polmoni
e quante belle biglie a rotolar
e quante belle triglie nel mar.

Fabrizio De André


(1) Un piccolo pinzimonio
splendido matrimonio
cavoli e fragole
e patelle ed arselle
pescate a Zanzibar
e qualche krapfen
prima di dormire
ed un risveglio con valzer
e un Alka-Seltzer per
dimenticar.

 

Paolo Salomone

(I contributi di Carlo Lepri sono tratti dal suo intervento al convegno sulla residenzialità di disabili intellettivi “Il loro futuro ha una casa”, organizzato dall’Associazione Italiana Persone Down a Roma, il 10-11 dicembre 2004).

Alla mensa di Moron

Ida Brunet, che per una ventina d’anni ha preparato il pranzo ai bambini della scuola di Moron, un villaggio sulla collina di Saint-Vincent, ci ha accolto in casa sua. Sulla parete dell’ingresso, in bella mostra, troneggia un grande dipinto realizzato dagli alunni della materna della sua scuola.
Ci parla con piacere della sua avventura lavorativa.
- Per caso, sono diventata cuoca a Moron. Prima vivevo e lavoravo a Torino. Alla fine degli anni ’60, sono dovuta tornare a Moron per ragioni di famiglia.
Un giorno, il sindaco mi ha chiesto se volessi sostituire la cuoca di Moron che si era ammalata. Non era il mio mestiere, ma sapevo fare da mangiare. Così ho risposto: “Ci provo!” Quando sono entrata in quella scuola mi sono cadute le braccia. La prima cosa che ho fatto, per diversi giorni, è stata pulire i pavimenti. La cucina e il refettorio erano in uno stato pietoso. In cucina c’erano soltanto una stufa a due buchi e due pentole piccole piccole. Come si poteva preparare da mangiare a venti bambini con solo due pentole? Quell’anno ho veramente tribolato.
Non c’erano tovaglioli, né tovaglie, né asciugamani. Come facevano i bambini ad asciugarsi le mani? Così ho cominciato a portare qualcosa da casa mia e a chiedere il necessario al comune.
All’inizio, qualche genitore non capiva le mie richieste e mi rimproverava di avere pretese cittadine. “Viene da Torino. Cosa crede di fare? Siamo sempre andati bene così!”
Con il passare degli anni, la situazione è migliorata; la mia cucina è stata attrezzata di tutto il necessario.
Nei primi tempi, solo il pane si acquistava sul posto. Tutti i rifornimenti provenivano da Aosta. Ricevevo sacchi enormi di una pasta integrale grigia e lattoni di conserva da 5 kg. Conservare il contenuto di queste grosse scatole, una volta aperte, era un vero problema.
Sempre da Aosta ci mandavano del formaggio rosso che non piaceva ai bambini.
Le razioni, non erano sempre adeguate. Come fa un bambino a stare fuori casa tutto il giorno mangiando un po’ di pasta e un solo formaggino?
Se poi arrivava la marmellata, non arrivava il formaggio. Il pranzo era proprio misero.
Con il passare del tempo, la situazione è migliorata; potevamo fare direttamente la spesa in tre negozi autorizzati.
Potevo variare il tipo di pasta: farfalle, gnocchetti, spaghetti, non sempre i soliti ditalini.
I bambini amano la varietà nel cibo. A quei tempi, qualcuno di loro, a casa, era solito cenare a pane e latte. Cercavo sempre di preparare qualche piatto che piacesse ai bambini, stando attenta a proporre dei pasti equilibrati. Tutti mangiavano volentieri.
Invitavo sovente le mamme a passare dalla cucina per vedere che cosa preparavo per i loro figli, con quanto amore cercavo di venire incontro ai loro desideri.
Condivo la pasta in bianco con il sugo dell’arrosto: ai bambini piaceva da morire!
Mi ricordo una bambina, che non amava l’insalata. Un giorno, ho visto che la prendeva dal piatto e se la metteva in tasca. Non l’ho sgridata, ma l’ho presa da parte e le ho detto: “Se non ti piace, chiedi solo una foglia. Se metti l’insalata in tasca, ti macchi d’unto e le maestre se ne accorgono”. Seria, seria mi ha risposto: “Ma poi, vado ai gabinetti e la butto!”
Ogni tanto qualche bambino mi aiutava, ma mai vicino ai fornelli! Dopo essersi lavato le manine, apparecchiava o lavava la frutta.
Con gli anni, il numero dei bambini è aumentato, sino a novanta, ed è arrivata Maura(1) ad aiutarmi.
Insieme preparavamo da mangiare, pulivamo; trovavamo anche
il tempo di partecipare con i bambini ai lavori manuali organizzati dalla maestra Marcella(2).
Scendevano in refettorio a disegnare, a fare la stampa. Io, poi, che ero capace a cucire, insegnavo a qualcuno a tenere l’ago in mano.
Non riesco a tornare alla scuola di Moron, perché i ricordi di quei tempi mi commuovono ancora. Pochi giorni fa, un signore, di una trentina d’anni, mi ha fermata per strada e mi ha chiesto: “Ida, non ti ricordi di me? Sono Mauro? Quand’è che mi cucini di nuovo il risotto?”

Ida Brunet

Note
(1) Maura Truchet, aiuto cuoca. A partire dal 1992, superato il concorso, è diventata cuoca titolare. Svolge tuttora la sua attività nella scuola di Moron.
(2) Marcella Polese, per più di dieci anni è stata insegnante e sorvegliante in tempo mensa nella scuola di Moron.

Professionisti della ristorazione

É stato soprattutto l’interesse per il sociale a fare nascere, nel 1983, la Cooperativa “Noi e gli Altri”. Cristina Monami ne è la Presidente. La cooperativa è impegnata in molti degli ambiti del sociale, ma, in particolare, si occupa di fornire alle scuole l’assistenza alle mense ed ai Comuni la fornitura dei pasti caldi.
Un settore difficile perché tocca gli alunni sui quali, giustamente, viene posta un’attenzione forte da parte dall’ente pubblico, dei genitori, degli operatori scolastici e per i quali è necessario prestare una continua attenzione ad aspetti delicati quali l’appetibilità di un menù, la sua correttezza alimentare e l’equilibrio compositivo.

Definire un menu è uno dei punti più critici della vostra attività. Quali criteri avete seguito per farlo? Quali esperti avete consultato?
Si tratta di un elemento talmente importante da diventare la discriminante nel definire la gara d’appalto, ed è proprio su questa base che noi l’abbiamo vinta. Il Comune di Aosta ha apprezzato il nostro menu che, peraltro, era il frutto di lunghe riflessioni fatte con esperti di alimentazione dell’età evolutiva. L’idea di fondo era quella di rompere con la tradizione ripetitiva che proponeva ciclicamente sempre gli stessi piatti. Abbiamo, ad esempio, introdotto la pasta con le lenticchie, il brasato con la polenta, le penne con il sugo di tonno, i fusilli alle melanzane, i cuori di salmone al forno ed altri. I principi che hanno guidato gli esperti nella scelta del menu sono stati due: offrire dei cibi ineccepibili dal punto di vista nutrizionale e un menu vario.
Il menu è piaciuto subito a noi, ai cuochi e al Comune. Qualche sconcerto lo abbiamo rilevato da parte degli utenti. Sovente i bambini sono abituati a mangiare continuamente le medesime cose. Un altro punto al quale abbiamo fatto attenzione, nella sua definizione, è quello di fare un po’ di educazione alimentare proponendo cibi molto variati nel gusto e nel tipo in modo tale da far abituare i ragazzi a mangiare di tutto.

La monorazione non è molto ben accetta in genere. Perché questa scelta e come fate a far giungere sulla tavola dei ragazzi il cibo ancora caldo?
Abbiamo una cucina in Aosta che tutte le mattine prepara cibi freschi per le mense scolastiche. Si tratta di una cucina bella, anzi, non esito a dirlo, la più bella di tutta la Valle e la più all’avanguardia, un forte investimento del quale siamo estremamente soddisfatti. Il cibo viene messo in contenitori termici che sono in grado di tenerlo caldo per il periodo necessario ad uno spostamento di 30-40 chilometri, anche se le scuole che serviamo non distano mai più di 5-6 chilometri dalla cucina. Questi contenitori sono tenuti caldi tramite la corrente elettrica e, quando arrivano nelle scuole, possono essere nuovamente attaccati ad una presa per mantenere il cibo in temperatura fino al momento del consumo. Questa cucina produce i pasti in piatti sigillati monodose, utilizzando un’attrezzatura che evita qualunque intervento manuale. Servire il cibo in piatti a perdere offre notevoli vantaggi come, ad esempio, quello di evitare qualunque manipolazione dopo il momento della produzione. Certo c’è il consumo della plastica, ma il vantaggio igienico è evidente. Il problema semmai deriva dal fatto che la monorazione comporta una concentrazione di odori e di calore che rende la presentazione esteticamente meno efficace. D’altra parte, utilizzare dei piatti in ceramica comporterebbe problemi sanitari ed economici quale, ad esempio, quello di dover dotare ogni scuola di una lavastoviglie per grandi comunità.

Si sa che i genitori sono molto esigenti riguardo all’alimentazione dei figli. Riuscite a coinvolgerli nelle vostre scelte in modo da evitare successive proteste?
Il coinvolgimento dei genitori fa parte del progetto di educazione alimentare che vogliamo realizzare. Ad onor del vero, gli incontri con gli esperti di alimentazione che abbiamo organizzato durante lo scorso anno scolastico non hanno avuto un grande riscontro di pubblico. Li abbiamo molto propagandati, ma la partecipazione è stata bassa. Ma non demordiamo perché riteniamo fondamentale, visto anche il gran numero di malattie prevenibili con un’alimentazione adeguata, che ci si scambino le idee su questo soggetto. Anche perché i valori nutrizionali non sono gli unici parametri da tenere presenti. È altrettanto importante la conoscenza dei gusti dei ragazzi. Le nostre scelte, in tutti i casi, sono di tipo nutrizionale e vanno spiegate al grande pubblico altrimenti, talvolta, possono risultare incomprensibili.

Le norme igieniche sono giustamente molto rigide per quanto riguarda la ristorazione. Come fate a tenere sotto controllo questo aspetto?
Le frequenti e inaspettate visite di Vigili sanitari e dei Nas, visti gli esiti, non ci preoccupano affatto anzi ci consentono di confermare la qualità del nostro lavoro. è giusto che ci siano e sono una garanzia anche per noi, attestano che il nostro lavoro è svolto in modo serio, scrupoloso e igienicamente ineccepibile. Siamo fieri dei complimenti che ci sono stati fatti per la pulizia, la conduzione delle cucine e la professionalità del nostro personale.

É cambiato notevolmente il profilo del personale addetto alle mense e sono cambiate anche le attività richieste e proposte. Cosa fate per il dopo pasto?
Il personale animativo ha un progetto di lavoro. Noi abbiamo due obiettivi: favorire lo stacco tra l’attività scolastica del mattino e quella del pomeriggio e ridurre, nel momento della refezione, la pressione alla quale gli alunni sono sottoposti nell’attività scolastica. Si tratta di presentare agli alunni proposte morbide e non impositive per concedere loro una vera e propria “tregua”. Per fare questo scegliamo persone che abbiano almeno conseguito un diploma, che dimostrino buona capacità di comunicazione e meglio ancora se hanno figli... Abbiamo anche cura che si tratti di persone giovani, ma affiancate da persone più mature. Così facendo, possiamo offrire una vasta gamma di atteggiamenti e modalità di relazione a coloro che usufruiscono della refezione. Un altro obiettivo che ci proponiamo e che chiediamo al personale di realizzare è quello di rendere le stanze più gradevoli. Spesso, durante il dopo pranzo, vengono effettuati lavori di ottima qualità. Abbiamo anche dotato ogni gruppo di cancelleria varia, giochi da tavola, attrezzi e gli immancabili palloni di spugna per permettere ai maschi e alle femmine di soddisfare questo desiderio. Non crediamo sia possibile utilizzare solo giochi di società perché si devono tenere in considerazione sia i bambini più vivaci sia quelli più tranquilli.
Inoltre, all’interno della nostra cooperativa, siamo in grado di provvedere una rete di professionalità specifiche per gli alunni diversamente abili. In queste situazioni, prima di prendere in carico il bambino con i suoi problemi e le sue difficoltà, ci confrontiamo con l’équipe territoriale, con le insegnanti che lo hanno in classe, con il bambino stesso e la sua famiglia.

Refettori rumorosi e spazi per il dopo pranzo disagevoli. Le scuole difficilmente sono state costruite tenendo presente che ci sarà una mensa. Come si risolve questo problema?
Quando per il dopo pasto siamo costretti ad utilizzare i corridoi della scuola, come gestire questo spazio diventa un problema. La maggior parte delle volte le scuole non dispongono di altro, allora le attività possono divenire demotivanti e anche l’attività educativa rischia di non raggiungere lo scopo che si prefigge.
Circa la rumorosità dei locali adibiti alla refezione, riteniamo sia impossibile convincere i bambini a non parlare a tavola. Non solo, non siamo neppure convinti che sia corretto. Il momento del pasto è spesso quello in cui il bambino ha uno spazio per raccontare, per confrontarsi con gli adulti e i compagni, per confrontare le proprie esperienze extra scolastiche. è il momento in cui può parlare con un adulto di argomenti non scolastici. Proprio in questi momenti i bambini raccontano molte cose della propria vita. È in questo spazio che si mostrano le diverse personalità. E questo è possibile perché si tratta di un momento particolare della giornata, un momento in cui si è rilassati. Certo, se le pareti e il soffitto fossero dotati di pannelli fonoassorbenti la vivibilità sarebbe tutt’altra.

È facile immaginare che è necessario un lavoro di équipe per organizzare una struttura così complessa.
Abbiamo, all’interno del nostro staff, un laureato che coordina il servizio. La responsabilità della gestione del personale, la fornitura dei pasti e le attività didattiche ricadono sotto la sua diretta responsabilità. Nella nostra équipe sono presenti anche due psicologi che rappresentano un chiaro punto di riferimento per le problematiche di tipo psicologico e didattico. Sono previsti incontri periodici per analizzare quanto accade. Una psicologa è attiva nel nostro staff a tempo pieno e funge anche da coordinatrice delle attività animative, mentre l’altra collabora con noi fornendo una supervisione generale di tipo psicologico.
Uno dei nostri punti di forza, in questo ambito, sono le riunioni settimanali che ci permettono di favorire il passaggio di competenze, esperienze e di conoscenze assumendole da tutti le attività della cooperativa.

I vostri assistenti rappresentano la continuità rispetto al docente.
Si tratta sempre di un incontro di personalità e di professionalità diverse. I due ruoli non coincidono, ma si agisce comunque su bambini. Il dialogo tra insegnanti e assistenti è spesso costruttivo. Certamente ci sono delle situazioni in cui ci sono stati problemi di comunicazione, ma, nella maggior parte dei casi, soprattutto là dove sussistono delle difficoltà, si è cercato di superarle con la buona volontà da parte di entrambi e quasi sempre ci si è riusciti.

Intervista a Cristina Monami

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