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Gli esami non finiscono mai!


Dal superamento dell’esame di francese al ruolo di formatore dell’area bi/plurilingue, il racconto di un’insicurezza linguistica mutata in sicurezza realizzato da un’insegnante napoletana di lettere che non si è mai persa d’animo.

Da Napoli alla Valle d’Aosta, da insegnante di lettere a docente con la patente bilingue. Come hai risolto i momenti di insicurezza linguistica?
Mi viene la tentazione “polemica” di capovolgere l’etimo del termine “insicurezza” trasformando il prefisso negativo in un suffisso positivo: sicurezza-in. Sì, perché l’uso della “lingua madre” non s’ha da considerare mai una forma linguistica di secondo ordine, neanche se essa è un dialetto. È attraverso la lingua madre che ci apriamo al mondo, è con essa che pensiamo, amiamo, soffriamo. Ma se si rimanesse solo dialettofoni, si finirebbe per emarginarsi ed essere emarginati, in una società come quella odierna, che ormai è multietnica e plurilingue. Se non si è in grado di comunicare con l’altro che usa una lingua diversa dalla propria, il mondo sarebbe chiuso tra le pareti domestiche e si finirebbe per avvalorare la tesi di coloro che parlano di insicurezza linguistica riferendosi all’uso del dialetto.
Questa è sempre stata l’idea portante che mi ha spinto fin da bambina ad apprendere la lingua italiana, ad usarla attentamente fino a scegliere di diventare insegnante di lettere.
Ho voluto andare oltre, così mi sono appassionata sempre di più alle origini della lingua nazionale, agli studi filologici, alle ricchezze delle parlate locali. Poi… anno 1979 la svolta: l’arrivo in Valle d’Aosta. Lo scoglio: “Vuoi insegnare? Devi conoscere la lingua francese!” Quello fu il momento in cui la mia convinzione di sicurezza-in cominciò a scemare. Parlare, scrivere, leggere, capire in L2: come avrei potuto? Come avrei fatto? Non mi sono mai persa d’animo: l’interesse per le lingue e la voglia di realizzare il mio progetto futuro (l’insegnamento) mi hanno sostenuto nell’acquisizione autodidatta della L2 (lettura di Le Monde, ascolto di Antenne 2, grammaire française, corsi regionali).
Il francese, una lingua il cui suono dolce e melodico ha accompagnato la mia giovinezza con le canzoni di Charles Aznavour o di Gilbert Bécaud. Con lo studio ho potuto spiegarmi tante espressioni dialettali di mia madre, che riuscivo a comprendere solo se collocate nel contesto e nel significato essenziale. “Quill(e) è propri(e) a forfait”. Ordina la tua camera per bene non come sempre alla “sans façon”.
E così ho scoperto che nel mio dialetto tante parole e tanti suoni sono francesi.

SOLÉI DE MÉ (O SOLE MIO)

Que dzenta bagga
can n’a lo soléi
lo siel pi aller
aprì la tormenta
l’er l’é pi fritse
e la nei pi luizénta.
Que dzenta bagga
can n’a lo soléi.
Rit. Soléi de me
pi dzen n’a pa
soléi de mé
va pami yà.
Soléi, soléi de mé
Mé resto bien, can veyo te.

Parlavamo del tuo arrivo in Valle d’Aosta…
Sono nata nella campagna di Gragnano, zona del pompeiano tra Castellamare di Stabia e Pompei, dove non esistono montagne alte, ma declivi dolci che hanno abituato i miei occhi al verde della “Vallée”.
Statt(e) bbuon(e), cambiare paese è cambiare fortuna”. Queste le parole nella mia mente quel lontano ottobre del 1979. Ricordo come fosse ieri quei 1000 km di pianto tra il luogo dove ero nata, dove avevo studiato, dove avevo amato e Aosta, che rappresentava per me un’occasione di realizzazione professionale.
A Napoli ero la 2000° dei docenti non abilitati. In Valle d’Aosta non c’era la graduatoria degli abilitati ed io risultavo al sesto posto per gli incarichi. Pensai: “Se la lingua è l’ostacolo per realizzare il mio sogno, allora mettiamoci a studiare!”. Quindi Le Monde in mano, “Antenne 2” nelle orecchie, partecipai ai corsi regionali dell’IPR che mi sono stati utili per prendere “confidenza” con una lingua nuova e complessa.
Mi scoprii orientata verso le strutture della lingua francese: non facevo nessuna difficoltà a pronunciarle tranne, ed è un problema di noi meridionali, le nasali, la “u” e il suono “ll” di Châtillon.
Superato l’esame di francese, ho acquisito una maggiore sicurezza rispetto a questa lingua. Ricordo che durante l’esame orale, ho fatto proprio riferimento a quanti suoni e a quante parole della mia lingua madre, il napoletano, ricorrono nella lingua francese: “moustache”, “bouteille”, “sparadrap” (cerotto), pronunciati allo stesso modo e di significato uguale, tutte parole che io usavo senza conoscerne l’origine. Anche il termine francese “mouchoir”, se pronunciato così come è scritto (senza rispettare la fonetica), mi ricorda tanto l’antico napoletano o il calabrese “moccaturo” (come muco per il naso) con il quale ci si riferisce al fazzoletto, sia quello da naso sia il moderno “bandana”.

Il francese, quindi, non è stato un ostacolo al tuo inserimento nella realtà valdostana…
No, anche se, ho sofferto per questa lingua. Ho dovuto, infatti, dare tre concorsi a cattedra perché per due volte non sono riuscita a passare l’esame di francese! L’umiliazione è tata grande e, quando lo racconto, qualcuno mi chiede: “Ma come hai fatto ad innamorarti di questa lingua?”
È stata soprattutto una sfida con me stessa, mi dà molto fastidio sentire parlare una persona e non riuscire a comunicare con lei. È quanto mi succede con il patois, quando dei ragazzini parlano in classe. Io vorrei entrare nei loro discorsi, ma capisco la metà di quello che dicono. Questa è stata la motivazione che mi ha spinta ad interessarmi a tutti i dialetti: poter capire i discorsi in patois o in altri idiomi. Inoltre, il non poter condividere la mia parlata, mi ha fatto comprendere l’importanza del dialetto come lingua che crea legami e che conserva le tradizioni profonde della persona che lo usa.
Nelle nostre classi, infatti, convivono tante parlate locali e i ragazzi pensano che il loro dialetto sia il più importante e gli altri siano di secondo ordine. Per questo io, in seconda, dedico parte della mia azione didattica a far riflettere i ragazzi sul fatto che tutti i dialetti e tutte le lingue abbiano pari dignità.

Puoi farci un esempio concreto di come affronti l’argomento?
La conoscenza delle funzioni e della struttura della lingua “anche nei suoi aspetti storico-evolutivi” è uno dei criteri per la valutazione dell’italiano nella scheda personale dell’alunno della scuola secondaria di primo grado.
Nel rispetto di tale criterio e nell’intento di sviluppare tolleranza ed intercultura (oltre alla riflessione sugli aspetti grammaticali “più tradizionali” e costitutivi della lingua italiana), ho rivolto l’insegnamento dell’italiano verso l’analisi e lo studio delle sue origini attraverso esempi tratti sia da testi letterari, sia dalle esperienze linguistiche degli allievi legate all’uso diretto o indiretto del dialetto. Ascoltando i dialoghi degli alunni, riflettendo su certi loro errori grammaticali e sintattici o su certe espressioni di uso quotidiane molto differenti da quelle appartenenti al mio patrimonio linguistico la domanda più ricorrente è stata: “Come posso far comprendere ai ragazzi gli errori linguistici legati all’uso orale della lingua e/o all’inferenza dialettale? Come posso evitare di compromettere la spontaneità nella comunicazione orale? E soprattutto, come educare al rispetto reciproco e al superamento del pregiudizio?”
Tali interrogativi, gli uni legati al mio ruolo di docente di italiano, gli altri più vicini al mio essere e sentire in quanto persona, mi hanno spinto a progettare, valutati i bisogni della classe, un’attività didattica che ha coinvolto allievi, famiglie e alcuni docenti della classe. Si è trattato di riflettere sulla latinità dei dialetti, a partire da esempi concreti [(caruso – siciliano, dal latino cariosare (tosare la pecora) a bambino imberbe; “trasite” = entrare ? da transeo latino = passare; berciare = urlare sguaiatamente da bociare con berbice ? emettere voce sgradevole come una pecora (brebis)] sulla loro pari dignità, sui substrati ed i prestiti linguistici; attraverso anche confronti con termini o strutture in L2, L3, in arabo e spagnolo, data la presenza di alunni marocchini e domenicani in classe.
L’analisi di una favola di Fedro in latino, dei primi documenti della lingua italiana (Indovinello Veronese, Placito Capuano, Cantico delle Creature e passi dell’Inferno) e della lingua francese (Serment de Strasbourg, versi della Chanson de Roland), la raccolta di modi di dire, proverbi e canzoni appartenenti al patrimonio dialettale degli stessi allievi e delle loro famiglie sono stati i contenuti di un progetto plurilingue realizzato nella classe seconda della scuola media di Charvensod nell’a.s. 2001/2002.
Tale progetto si è concluso con una rappresentazione teatrale nel corso della quale gli alunni hanno dato prova di essere diventati realmente un “bel gruppo classe”. Che cosa questo abbia rappresentato per me è facile intuirlo: un’esperienza gratificante dal punto di vista professionale, linguistico e umano; un’esperienza positiva che continua nel tempo.

Quando la tua insicurezza si è trasformata definitivamente in sicurezza linguistica?
Il mio essere napoletana mi ha sempre fatto soffrire un po’. Ecco perché all’inizio ho parlato di insicurezza psicologica: mi sentivo giudicata per il mio accento, avvertita come straniera. Espressioni come “Anche se napoletana, tanto di cappello!”, rivolte alla mia persona (sia pure senza l’intento di ferirmi) sono state dei veri colpi al cuore, ma io ho voluto sempre onorare la mia terra d’origine e, al tempo stesso, rispettare il luogo dove vivo e che mi ha accolta.
Scoprire che, giorno dopo giorno, l’impegno e la passione mi rendevano sempre più padrona della lingua francese (riuscivo, infatti, sempre di più a maîtriser la langue), era una sfida con me stessa e una grande soddisfazione.
Suscitare interesse e ilarità nel ripetere modi di dire, espressioni, gesti tipici della mia terra, mi ha aiutato a superare il disagio che provavo all’inizio della carriera. Sono convinta che i rapporti umani si basano su valori che vanno al di là dell’origine e della provenienza della persona.
Adesso, dopo 25 anni, mi sento sicuramente accolta e sono diventata anche formatore dell’area bilingue. Questa esperienza è stata bellissima perché ho potuto confrontarmi con altri colleghi che, pur avendo studiato in Valle d’Aosta, avevano, a volte, rispetto alla lingua francese i miei stessi problemi.
L’insicurezza linguistica, infatti, non è prerogativa dei dialettofoni, ma di chiunque si cimenti con una lingua nuova. Ho superato pertanto l’impasse che provavo e mi sono accorta che i miei problemi erano capiti e condivisi.
Ho acquisito maggiore sicurezza nell’insegnamento quando sono stata me stessa. Proprio me stessa, con le mie inflessioni regionali, con i miei modi di dire, con umiltà e sempre spiegando ai ragazzi il concetto di diversità linguistica come vera risorsa. In classe, scherzosamente,
mi rivolgo ai ragazzi con “asseyez-vous”, “understand”, “capito mi hai” oppure “tais-toi!”, cioè, oltre che con l’italiano, lingua in cui sono più competente, cerco di stimolare nei ragazzi la riflessione sulla ricchezza costituita dalla conoscenza, sia pure a livelli diversi, di più lingue. Racconto sempre la mia esperienza ai ragazzi, sottolineando che sbagliando si impara!

A quali risorse hai attinto per l’apprendimento della lingua francese?
Alla volontà! Grazie alla mia volontà di ferro e al mio coraggio ho imparato. Anche la mia famiglia ha contribuito a facilitarmi l’apprendimento. I miei genitori, infatti, sono stati per me un modello linguistico di apertura e non di chiusura. L’ambiente in cui ho vissuto era plurilingue. Mio padre e mia madre, provenendo da due ambienti napoletani diversi, cercavano un’intesa linguistica utilizzando l’italiano come lingua “dotta” nei momenti considerati importanti.
Il senso civico è stato anch’esso determinante perché mi sono detta: “Faccio parte della categoria degli insegnanti valdostani, la legge prevede l’applicazione degli articoli 39 e 40, insegno educazione civica, per cui sarei io per prima fuori legge se non proponessi ai ragazzi delle attività in francese”, ben consapevole che il mio francese non è il francese dell’insegnante di francese.

Pensi di meritarti l’indennità di bilinguismo?
Credo proprio di sì. Ho studiato il francese e cerco di applicarlo a scuola perché altrimenti non mi sentirei a posto con la mia coscienza, avrei la sensazione di aver sprecato tempo e sofferto inutilmente.
In classe, applico l’alternance des langues in alcuni progetti o unità didattica di storia, ma nel momento in cui non mi sento di procedere in francese, comunico in italiano non dimenticando il mio ruolo di insegnante di L1.
Grazie alle colleghe che mi hanno contagiato, Anita Cuneaz, Cinzia Sciacqua, Nicoletta Chanu, insegnanti preziose nel milieu pluri-linguistico di Charvensod, ho potuto sperimentare nuove forme di apprendimento linguistico. Mi sento fortunata ad appartenere a quel gruppo. Insieme abbiamo condiviso l’esperienza della formazione per formatori dell’area bi/plurilingue e abbiamo messo in piedi il projet histoire, con formatori francesi (Laurent Gajo, Michel Huber), abbiamo riso, discusso animatamente e imparato tanto.
Come Edoardo De Filippo, mi sento di poter dire ai giovani insegnanti che “gli esami non finiscono mai” e di non scoraggiarsi pertanto di fronte alle difficoltà del nostro ruolo in un mondo che … “Chi lo capisce più!”

intervista ad Angela Acconcia

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