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Anche i ragazzi scelgono gli spazi in cui star bene a scuola

La scuola come ambiente
Negli ultimi tempi il problema dell'educazione ambientale ha assunto valenze ricche e significative ma molto difficili da realizzare. Tutti noi dovremmo infatti educarci a vedere il nostro piccolo ambiente integrato in quello della intera specie umana.
Per correlare quello che si dice dell'ambiente in generale con quello che accade nel proprio ambiente particolare, ci è sembrato necessario stimolare i ragazzi a conoscere meglio la loro scuola, mentre noi adulti cercavamo di guardare, con i loro occhi, il luogo in cui insieme passavamo tanta parte del nostro tempo.
Abbiamo quindi cominciato a parlare di ambiente, notando come questa parola avesse, per i ragazzi, diversi significati. Per pochi, indicava un posto dove si sta bene e dove "fa piacere vivere" (quindi non la scuola), per molti, significava un posto lontano e diverso, con giungla e animali selvaggi, in cui vivono altri, da visitare nelle vacanze.
Le strategie per esplorare la scuola-come-ambiente sono state simili a quelle usate negli ambienti naturali: abbiamo così mandato in giro i ragazzi forniti di macchina fotografica, bloc-notes e sacchetti per reperti. Il compito era di cercare tutte le cose "che non vanno bene", quelle che non dovrebbero esserci, quelle che avrebbero bisogno di essere modificate, aggiustate o custodite. E ad ogni successiva esplorazione, imparando a guardare, i ragazzi si accorgevano di nuove cose.
Il coinvolgimento è stato grandissimo, anche perché si è subito cominciato a discutere su chi era responsabile sia dei danni sia del ripristino delle cose che "proprio non vanno". Sentendosi partecipi e coinvolti personalmente era abbastanza difficile essere oggettivi e passare da un'idea di ambiente in cui le responsabilità sono di altri e in cui ci si può soltanto lamentare, all'idea di ambiente in cui le responsabilità sono anche personali ed in cui le cose potrebbero cambiare con atteggiamenti e comportamenti più responsabili.
"Siamo noi che abbiamo insozzato le pareti dei cessi, demolito il campo da gioco, sfasciato le reti, siamo noi che non sappiamo fare ricreazione in pace e dobbiamo essere sempre controllati, siamo noi che litighiamo appena ci danno un po' di libertà, siamo noi che detestiamo cordialmente il bidello che a sua volta ci detesta cordialmente..."
I ragazzi spiegano perché alcune cose vanno bene e fanno piacere, ed altre no, riflettono sulle correlazioni che determinano lo star bene o lo star male a scuola, esprimono desideri di miglioramenti, valutano la possibilità di realizzarli. "Mi piacerebbe fare ricreazione in corridoio invece che nell'aula perché così potrei parlare con le ragazze dell'altra classe". Ma altri ribattono: "Io no, perché a me i ragazzi dell'altra classe mi prendono il pallone, mi dicono parolacce, mi prendono in giro". E l'insegnante che ascolta è costretto a valutare in un altro modo le stesse cose che già sa da sempre. Per esempio, questo "prendersi in giro" è gravissimo per i ragazzi, e devasta la socialità all'interno della scuola. Essere presi in giro porta alla morte sociale, alla perdita di prestigio. Accorgersi di questo e delle tante cause di disagio e sofferenza dei ragazzi dovrebbe aiutare l'insegnante a costruire un "ambiente in cui fa piacere vivere".
I ragazzi fotografano con entusiasmo le prese di corrente pendenti e le varie scritte sulle pareti dei bagni, le classificano zelantemente distinguendo quelle tifose da quelle sporche, da quelle amorose, da quelle rabbiose… Le responsabilità, ancora una volta, sono di tutti, ma nessuno vorrebbe davvero ripulire le pareti cancellando, con un colpo di pennello, momenti importanti della propria vita.
Si presenta quindi la difficoltà di gestire il passaggio dall'individuale al collettivo, dall'individuale al sociale. "Uno" butta un pezzo di carta per terra, "tutti" buttano un pezzo di carta per terra; "uno" scrive il nome della sua ragazza sul muro, "tutti" scrivono il nome delle loro ragazze sul muro. Immediatamente le cose che individualmente sembrano da poco conto assumono dei valori socialmente esplosivi.

Darsi delle regole
Per capire cosa avrebbe reso più facile ai ragazzi lo "star bene a scuola" abbiamo chiesto ad ognuno di formulare un proprio decalogo, che rispettasse le esigenze individuali ma che permettesse a tutti di fare cose più piacevoli e più utili. Il confronto tra le tante proposte è stato vivace e polemico, ma subito si è posto il problema di come far accettare le regole a chi non le condivide. “Se questo ci sembra giusto, come possiamo fare per imporlo agli altri? Come far rispettare le nostre regole da tutti? Come convincere quelli a cui non vanno bene? E se gli altri non le rispettano (cosa che peraltro succederà), che fare? Ora i ragazzi discutono apertamente e con consapevolezza, ma il problema è serio: se si decide, per esempio, che non si scrive più sulle pareti del bagno e qualcuno non rispetta questa decisione, che si fa? Chi è il custode del rispetto della regola? Chi ne è il garante? A chi si fa riferimento in caso di sopruso? Chi è disposto, democraticamente, a cambiare la propria regola se proprio non va bene per gli altri?
Le minoranze non vogliono affatto sottostare alle decisioni di una maggioranza, e per imporre le loro regole “giuste” i ragazzi invocano controlli e punizioni ancora più autoritari di quelli che volevano evitare. Cercando la regola per fare rispettare le regole, tornano a ritenere indispensabile lo stesso tipo di violenza, di prepotenza e di prevaricazione contro cui lottavano all’inizio del lavoro.
Gradualmente, nonostante il dolore delle rinunce, i decaloghi individuali si trasformano in norme collettive, ma servono lunghi momenti di discussione, di mediazione e di ricerca di accordo. Dalle strategie autoritarie si è passati a strategie di persuasione, per condividere tra tutti le poche regole di convivenza sociale necessarie allo star bene comune. Le regole hanno avuto vita breve, ovviamente, ma il lavoro di riflessione è stato ugualmente utile.


Le responsabilità
Cercando le “cose che non vanno” se ne trovano alcune più importanti ed altre che “non vanno ma che danno poco fastidio”.
Per esempio, gli aspetti estetici della scuola, che da principio sembravano estremamente pregnanti, alla fin fine appaiono trascurabili. Le scritte sui muri o i segni lasciati da ciascuno hanno invece un enorme valore affettivo. È una sofferenza pensare che il proprio messaggio amoroso, o la parolaccia scritta in un momento di (legittima?) collera possano essere cancellate come se niente fosse.
Qualcuno ricorda che la scuola era stata dipinta e rinnovata da poco ma che ora i muri sono sporchi, pieni di impronte e di scritte. Quanto tempo ci vuole perché le cose si guastino? Si comincia a prendere coscienza di come il degrado avvenga progressivamente, crescendo su se stesso, provocato dalla mancanza di piccoli interventi fatti al posto giusto nel momento giusto.
Ci sono degradi inutili e degradi funzionali. Per esempio, nel campetto di calcio c’è un tappeto di erba più o meno folta, ma non c’è erba vicino alle porte. Questo è un bene o un male? E per chi? È “un male” perché sarebbe meglio per tutti avere un bel prato verde su cui occasionalmente i maschi giocano a pallone, oppure è “un bene”, perché l’erba sulla porta non fa per niente piacere ai portieri? E chi ha consumato l’erba davanti alle porte? Nessuno esplicitamente, ma tutti quelli che giocano lo fanno un poco. Forse il portiere in modo particolare, ma è difficile accusare di “consumo illecito di prato” il portiere del campo di calcio perché calpesta l’erba che ha sotto i piedi.
Questi cosiddetti degradi portano a riflettere sulle responsabilità individuali e su quelle collettive. Se si decide che si gioca a calcio, se si sceglie quel campo per giocare, si deve sapere che non si può conservare l’erba davanti alle porte. In cambio si può negoziare un altro spazio, in cui ci sia erba e in cui non si giochi a calcio, uno spazio in cui chi non è impegnato nella partita possa fare altre cose. Ma quanto tempo ci vuole per far crescere un prato? E quanta fatica? Come si fa a mantenerlo verde? Si pensa non solo a quanto tempo ci vuole perché le cose si guastino ma anche a quanto ce ne vuole perché le cose si facciano. Non si tratta solo di tempo: chi le fa? quanti ci si devono impegnare? Chi si prende le responsabilità del progetto complessivo? Contro gli interessi di chi bisogna necessariamente andare per realizzare un proprio progetto, o per far valere delle nuove regole?
Quasi sempre il cambiamento urta contro gli interessi di qualcuno, per questo è quasi impossibile rimuovere gli ostacoli che rendono difficile la vita all’interno della scuola, ostacoli che sembrano assurdi a chi li guarda da fuori. Perché si deve fare ricreazione in classe? perché si deve fare pipì soltanto ad una certa ora? Perché non si può usare la classe come laboratorio (guai a chi sporca lavorando!) e non si possono mettere i banchi a cerchio? perché non ci sono mai spazi e tempi per riunioni o discussioni? Non si sa, nessuno lo sa. Comunque sembra che tutti, proprio tutti, vivano la scuola in maniera pessima ma senza saperne il perché; e nessuno, da solo, ha la forza di cambiare le cose. Per questo è importante che i ragazzi comincino a sentirsi partecipi della situazione complessiva e ad escogitare dei modi di cambiarla.

Maria Arcà
IBPM- Sezione Acidi Nucleici
CNR Roma

Bibliografia
ALFIERI F., ARCÀ M., GUIDONI P. (a cura di) (1995), Vol I - Il senso di fare scienza; Vol. II - I modi di fare scienza - Bollati Boringhieri.
BRUNER J. (1997), La cultura dell'educazione, Feltrinelli.
LIVERTA SEMPIO O., MARCHETTI A. (a cura di) (1995), Il pensiero dell'altro - Contesto conoscenza e teorie della mente, Raffaello Cortina Editore.
PONTECORVO C. et al. (1991), Discutendo si impara, NIS Roma.

 

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