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La voce dei genitori

Due esperienze a confronto: una regionale e l’altra nazionale.

Una questione di fortuna

Sono la mamma di una bambina speciale con difficoltà di apprendimento dovute ad una sindrome congenita molto rara. Matilde è nata in un anonimo ospedale di città un giorno piovoso e triste di febbraio. La sua nascita portava con sé tutta la mia angoscia perché già a metà della gravidanza mi avevano comunicato che il bambino che aspettavo era gravemente malformato e rischiava di nascere morto o di non sopravvivere.
Il fratello di Matilde aveva già cinque anni a quell’epoca e visse la nascita della sorella come una brutta fiaba.
I primi anni di vita insieme sono stati un incubo fra interventi chirurgici, errori medici, ospedalizzazioni non necessarie o ritardate e cure poco adeguate. Ovviamente soffrivamo con lei forse pensando più al nostro dolore che al suo e mi dispiace ammettere che stiamo elaborando solo ora le sofferenze fisiche e psicologiche patite da nostra figlia.
Il piano riabilitativo che da meno di due anni ho scelto per la mia bambina comprende l’euritmia, la psicomotricità, la logopedia psicopedagogica, attività che le hanno permesso, a quasi dodici anni di età, di prendere coscienza e amare il suo corpo e di allontanare poco a poco dalla mente i traumi fisici e psichici subiti. Gli operatori privati che la seguono sono persone sensibili che riabilitano attraverso il piacere e l’amore.
Le nostre esperienze nella scuola sono state molteplici a cominciare dall'asilo nido a cui ci siamo imposti: la nostra domanda di ammissione fu infatti rifiutata più volte.
Oggi, per fortuna, i bambini disabili non possono più essere rifiutati dagli asili nidi, forse grazie anche alla nostra piccola vittoria.
Il periodo del nido, oramai lontano, ha permesso a mia figlia di tre anni di realizzare i suoi primi progressi imitando i compagni nel camminare e nel mangiare cibi solidi. Alla crescita di Matilde hanno contribuito anche l’ambiente familiare e accogliente e la professionalità unita all’amore delle sue educatrici.
Della frequenza alla scuola materna ricordo periodi meravigliosi e periodi infelici. Tutto è dipeso dal personale insegnante.
Così è successo anche alle elementari dove siamo arrivati oramai a frequentare l'ultimo anno.
Cosa voglio dire con questo? Dopo tanti anni posso affermare che la scuola sono gli insegnanti!
I docenti forse non sono del tutto consapevoli di quanto possano cambiare i destini dei loro allievi.
Purtroppo quando si presenta un bambino con difficoltà gli adulti si pongono nei suoi confronti con diffidenza e paura. Tutto ciò succede perché non conoscono il bambino e spesso lo credono affetto da problemi ben più grandi del reale. Inoltre la paura di sbagliare li frena al punto che preferiscono allontanare il problema, certe volte nascondendo e isolando il bambino in difficoltà, privandolo così anche della relazione con i compagni.
L’isolamento delle persone diverse è la maniera più facile di rimuovere il problema, “occhio non vede cuore non duole” dice il proverbio!
Pensare che basterebbe l’amore disinteressato verso gli altri e la consapevolezza del dolore dell’altro a rendere tutto facile.
Il senso di inadeguatezza e di incapacità porta, a volte, gli insegnanti a rapportarsi al bambino in modo sbagliato. O si pongono con la pietà dovuta ad un essere sfortunato e lo coccolano lasciandogli fare ciò che vuole o lo rifiutano, ignorandolo e frapponendo la barriera dei "non so cosa fare" e dei "non ce la faccio".
Il bambino con difficoltà lasciato a se stesso si annoia, si ribella, si affligge fa tutto ciò che non dovrebbe fare, perdendo tanto tempo utile alla sua educazione e al suo sviluppo.
Ovviamente noi genitori ci accorgiamo dall'esterno di questa situazione allora facciamo domande, ma difficilmente otteniamo risposte convincenti.
Si instaura così tra la scuola e la famiglia un rapporto falso fatto di bugie pietose che non servono a nessuno.
Per fortuna nella scuola non tutti gli insegnanti sono così!
Se si è molto fortunati si incontra un insegnante che si rapporta con il bambino in difficoltà accettandolo nella sua diversità e aiutandolo con amore e dedizione.
L'insegnante “bravo” si sforza di trovare sempre nuove strategie per far avanzare le conoscenze del bambino, ne riceve in cambio la sua gratitudine e il suo amore, si viene così a creare una sinergia ineguagliabile che fa crescere reciprocamente.
Il vero insegnante è colui che non ha certezze, si pone di fronte alla classe in un atteggiamento di ricerca ed evolve con i suoi allievi, portando nel cuore la storia di ogni ragazzo e godendo di essere parte della suo cammino verso l’età adulta.
Attualmente nostra figlia è seguita da un’insegnante che ha tutte queste qualità e noi tutti le siamo immensamente grati e le vogliamo un gran bene.
Purtroppo quando si cambia ordine scolastico si va verso l’ignoto e non si sa quali insegnanti, quale organizzazione si incontrerà dato che il passaggio di informazioni e la reciproca conoscenza non si attuano sempre, come previsto dalla Circolare Ministeriale n.1/88, durante il corso dell’ultimo anno, ma solo alla conclusione del ciclo.
Lo strumento stabilito per legge intorno al quale si organizza la collaborazione scuola-famiglia è il piano educativo individualizzato, il PEI.
Si fanno tre riunioni PEI all’anno in cui si analizzano i risultati, si prendono accordi, si discutono le modalità di intervento, tutto viene riassunto in un documento scritto piuttosto corposo.
Detto così sembra tutto facile, ma siamo sicuri che bastino tre incontri per risolvere i problemi?
Purtroppo, per la mia esperienza, posso affermare che il PEI è sovente redatto in modo formale, è letto solo dall’insegnante di sostegno e nel momento del passaggio da un grado di scolarità ad un altro.
La fortuna è l'elemento che determina la buona riuscita del periodo scolastico del bambino con difficoltà e la riuscita della sua integrazione.
L'insegnante, come ho già detto, è l'elemento che può far cambiare in bene o in male il destino di un bambino.
La famiglia a volte ha l’impressione di essere in balìa del sistema scolastico che si trincera dietro le leggi per fare il meno possibile e per essere coinvolto solo superficialmente sperando che il problema passi in altre mani.
Alcuni dirigenti scolastici non accettano il dialogo propositivo con le famiglie o se lo accettano è solo per rispondere: “Non abbiamo le risorse strutturali e umane che ci chiedete... i fondi sono sempre meno… l’edificio che ci ospita è inadeguato…”
Pochi giorni or sono mi è stato spiegato che nella scuola media il disabile grave sovente vive una vita parallela alla classe (e l’integrazione?) dato che non può certo seguire le lezioni come i compagni.
Se Matilde sarà fortunata incontrerà un docente di sostegno attento e preparato che, nonostante la scarsità degli spazi e delle risorse, saprà accompagnarla in un percorso di crescita, altrimenti che cosa le accadrà?

Lucia Bertorello
Ha fondato nel 2000, Tera Nouva, Associazione Valdostana dei Produttori Biologici e Biodinamici.
È attiva nell’impegno sociale a fianco delle famiglie con portatori di handicap.
La sua favola preferita è quella che racconta la storia del “brutto anatroccolo”.
La famiglia, risorsa primaria per la prevenzione e la riabilitazione del disabile

Immagini serene affiorano dalla mia infanzia. Ricca di ideali, desideri e speranze l’adolescenza irruppe nella mia vita con l’inquietudine delle acerbe emozioni e i lacci dei condizionamenti familiari e sociali.
L’università e il volontariato occuparono la mia gioventù. A ventisei anni lasciai casa per il servizio militare e, prima del congedo, il matrimonio con Maria recise il cordone ombelicale. Ritornato ci trasferimmo a Lucca dove cominciai ad insegnare.
Dopo dieci anni, qualche aborto spontaneo e il timore della sterilità, nacque Nicola.
Al parto, mentre le infermiere accudivano il neonato nel silenzio irreale del reparto “maternità”, il ginecologo m’investì con un perentorio: “Era meglio se facevate l’amniocentesi!”
Le parole mi giunsero alle orecchie, ma non ne colsi il significato. Il mattino seguente il pediatra mi comunicò che il bambino aveva un'anomalia congenita, la sindrome di Down o trisomia 21. La sua voce calma e sicura elencava i possibili interventi, alimentando in me la speranza. Maria fu informata il giorno seguente.
Decidemmo di darci tempo. Parenti e amici vennero a conoscenza dell’accaduto anche per vie indirette. Dovevamo metabolizzare le nostre emozioni e comprendere le paure, per evitare, per quanto fosse stato umanamente possibile, di proiettare sugli altri la nostra disperazione.
Con gli anni sono approdato ad una consapevole accettazione della condizione di padre handicappato, non dell’handicap, che considero tuttora un’inaccettabile ipoteca sulla mia vicenda umana. Spinti da una cieca fiducia nella vita (o se volete dall’incoscienza che porta ad agire contrariamente ad ogni prudente ragione), decidemmo di avere altri figli.
Dario e Alessio li abbiamo voluti e pensati come persone e come tali ci adoperiamo di farli crescere. Vigilo sui miei pensieri, per non investirli della tutela del fratello; rispondo alle loro domande, sempre più inquietanti, misurando il linguaggio, perché possano rappresentarsi la loro storia con Nicola senza sentirsene responsabili.
È oggettivamente gravoso condividere lo spazio e il tempo della disabilità. Non abbiamo mai pensato, Maria ed io, di imporre loro tale onere dopo la nostra morte.
I bei lineamenti non denunciarono subito la condizione di Nicola. Sentivo un forte impulso a urlare il mio dramma. Durante lo svezzamento si verificarono circoscritti episodi convulsivi per i quali il neurologo non ci prospettò alcuna possibile conseguenza. Scoprimmo anni dopo che furono la causa del comportamento autistico che Nicola ha sviluppato nel tempo e che oggi ha superato. L’handicap si aggiunse all’handicap e noi genitori conoscemmo inesprimibili sensi di colpa.
Come padre sento di essere culturalmente assimilato ad una protesi permanente dei limiti funzionali di mio figlio: la mia esperienza non viene considerata luogo di proficua ricerca, ma fonte di angoscia; la mia parola interpretata solo come continua domanda.
Per l’ostracismo dei dirigenti sanitari e la rinuncia della politica locale al proprio ruolo di garante, i genitori non partecipano direttamente alla definizione del Programma Abilitativo Riabilitativo Generale, sebbene la famiglia sia la risorsa primaria per la prevenzione e la riabilitazione del disabile. Esiste un patrimonio di sapere ignoto agli addetti ai lavori, a volte vissuto addirittura come concorrente al sapere “esperto”: è l’insieme di competenze che si affinano nei parenti della persona handicappata quando, consapevolmente, si assumono la responsabilità della loro storia; quotidianamente, infatti, il padre e la madre (solitamente è quest’ultima che si fa carico della situazione) sono obbligati a ricercare soluzioni quando non hanno risposte tempestive o condivise da parte delle istituzioni o addirittura non ottengono ascolto.
L’ASL, a mio parere, deve incentivare le azioni volte a migliorare lo stile comunicativo del personale per facilitare le relazioni con i cittadini e migliorare così lo standard di qualità delle prestazioni secondo il principio dell’umanizzazione dei servizi.
La conferenza dei Sindaci, deve garantire la partecipazione dei cittadini e del terzo settore ai piani di zona, secondo il metodo della concertazione, al fine di progettare servizi sempre più funzionali in ossequio al postulato “dai bisogni, ai servizi”, abbandonando l’attuale prassi che si fonda sulle compatibilità dei bilanci (“dai bilanci ai servizi”) rivelatasi negli anni non rispondente alle reali esigenze degli interessati.
È avvilente constatare che la qualità della mia vita e quella della mia famiglia dipende dalla volubilità di persone che spesso non conoscono le nostre condizioni esistenziali. È necessario, perciò, che il legislatore nazionale e regionale sostenga le prescrizioni a favore delle marginalità con l’imperativo “dovere”, abrogando la discrezionalità sancita dal verbo “potere”.
Il padre e la madre dell’handicappato vivono una condizione di stress: sensi di colpa, ansia per il futuro, rabbia impotente per il quotidiano confronto con il pregiudizio e l'ignoranza.
Queste continue tensioni determinano un invecchiamento precoce e compromettono spesso la trama delle relazioni sociali. I familiari non sono immuni dal paternalismo e dal pietismo che caratterizzano la mentalità sia religiosa sia laica; subiscono l’assistenzialismo, che caratterizza la gestione delle politiche socio sanitarie e, nel timore di perdere i servizi acquisiti, spesso si rassegnano alla sudditanza. L’esperienza, qui in Versilia, ha evidenziato la difficoltà ad aggregare le famiglie in un’associazione che si preoccupi della difesa non tanto dell’handicappato, che in qualche modo trova attenzione, ma dei familiari che rischiano l’invisibilità.
È necessario partire dall’analisi della realtà politica e sociale del proprio territorio per conoscere le dinamiche dei rapporti fra i vari soggetti (ASL, Amministrazioni Locali, Conferenza dei Sindaci, Terzo Settore) e le prassi seguite per la formulazione dei piani di zona per ipotizzare un programma di azioni coordinate e condivise che diano inizio a un processo permanente di cambiamento.
Il cittadino-utente deve essere consapevole di avere un duplice ruolo, propositivo e di controllo: è colui che conosce i bisogni collettivi e individuali dai quali partire per progettare i servizi e che può valutare la qualità e la congruità delle azioni realizzate dai responsabili delle politiche socio sanitarie sul territorio in relazione alle reali esigenze. La rinuncia a tali prerogative lo condanna inevitabilmente alla sudditanza.
Un nucleo di famiglie di portatori di handicap, da una decina di anni, con pazienza si è fatto carico della propria storia rivendicando il diritto alla partecipazione diretta, ha recentemente ottenuto un riconoscimento da parte della Conferenza dei Sindaci e sta riflettendo sulla necessità di costituirsi in associazione per diventare interlocutore istituzionale, rappresentativo delle istanze delle famiglie. Siamo solo agli inizi.

Angelo Puccinelli
Docente di economia aziendale in pensione. È rappresentante dei genitori del Centro Diurno di Socializzazione per Disabili di Viareggio. Attualmente frequenta un Corso di Formazione per Consulenti Familiari.

Informazioni utili

Le famiglie che promuovono le rivendicazioni operano come delegati dei genitori dei Centri Diurni di Socializzazione per Disabili e sotto la sigla ARCA-Famiglie H (l’ARCA è un’associazione storica dalla quale è sorta, quindici anni fa, la CREA, oggi la più grande cooperativa versiliese che opera nel sociale) con recapito al mio domicilio:
Via XX Settembre 172 – 55049 Viareggio – tel. 0584 960770 – e-mail: angelopuccinelli@inwind.it

 

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