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Una formazione impegnativa, ma stimolante

Accompagnate dal supervisore di tirocinio, Prof.ssa Adriana Fransus, abbiamo intervistato alcune specializzande della SISS. Con entusiasmo e serietà queste insegnanti si apprestano ad affrontare l’esperienza del sostegno.

Abbiamo raccolto le considerazioni, in una lunga conversazione a più voci, di cinque docenti al secondo anno della specializzazione per il sostegno alla SISS. Appassionate, critiche, riflessive si apprestano a trasporre le conoscenze acquisite nel loro futuro impegno professionale che sarà, per usare le parole del prof. d’Alonzo “volto all’innovazione e fondato scientificamente”.
L’incontro, al termine di una lunga giornata di studio e di lavoro, è stato veramente interessante, la trascrizione sintetica degli interventi non rende giustizia della ricchezza delle considerazioni emerse e non restituisce appieno la voglia di impegnarsi e di spendersi nel nuovo ruolo che le intervistate hanno maturato nei due anni di corso. Il resoconto, che mantiene almeno in parte le caratteristiche dell’intervista, conferma l’importanza del binomio formazione lavoro e testimonia del livello di approfondimento teorico e di condivisione d’intenti cui il gruppo delle formande della SISS è giunto.

In che cosa consiste la formazione specializzata per le attività di sostegno nella scuola?
Il corso di formazione per la specialità al sostegno è nato pochi anni fa. Per noi, si tratta di 800 ore di frequenza in due anni accademici, il cui fine è quello di specializzarci nel ruolo dell’insegnante di sostegno. Il contenuto delle attività riguarda prevalentemente tre aree: l'area psicologica, l’area pedagogico/didattica e una pratica, quella del tirocinio. Abbiamo più volte lasciato la realtà universitaria per svolgere attività aggiuntive di tirocinio, che ci hanno permesso di entrare direttamente a contatto con la disabilità, sia da un punto di vista prettamente professionale sia da un punto di vista umano.
Io, ad esempio, racconta una specializzanda, ho svolto l’attività di tirocinio nelle scuole superiori perché sono abilitata nelle discipline giuridico-economiche; in futuro potrò svolgere il mio ruolo di insegnante di sostegno solo nelle scuole superiori. Il mio tirocinio è stato caratterizzato da due momenti fondamentali: il primo di tipo osservativo. Era essenziale, perché non avevo esperienze in merito e non me la sentivo di attivarmi subito, mi mancavano le conoscenze teoriche e l'esperienza umana, che fa tanto a contatto con i ragazzi disabili. Ho appena concluso il mio secondo tirocinio che mi ha visto parte attiva. Ho avuto la fortuna di fare la tirocinante nella classe in cui insegno, ho partecipato con molto rispetto delle abitudini della classe, degli insegnanti disciplinari e soprattutto dell’insegnante di sostegno. Come tirocinante ho tentato di pormi come mediatore tra l'insegnante di materia e l'insegnante di sostegno titolare, investendomi in un lavoro di équipe.
Il tirocinio è per tutti noi una parte significativa dell’esperienza di formazione perché ci fa conoscere la realtà nella quale saremo chiamati a lavorare in futuro e ci segnala l’importanza di un ingresso “in punta di piedi”, rispettoso delle abitudini della classe e dei suoi insegnanti, disciplinari e di sostegno.

Che cosa avete apprezzato di più in questi anni di formazione? Che cosa, secondo voi, era essenziale per la vostra formazione?
Fin dall’inizio, concordano le intervistate, era importante acquisire delle conoscenze di base di tipo psicologico, pedagogico e sociologico, che l’acquisizione di una laurea specialistica non garantisce. Era altresì importante acquisire competenze spendibili, specifica una di loro, che aiutassero a trasformare i contenuti teorici, in strumenti di analisi e di lettura, in attività da proporre in classe quando sarò insegnante di sostegno.
Il corso di sociologia che abbiamo seguito l'anno scorso, ad esempio, ci ha offerto degli input molto importanti per gli sviluppi futuri della nostra professione.
Ci ha permesso, infatti, di riflettere sulla molteplicità degli attori coinvolti negli interventi in favore della disabilità: insegnanti di sostegno e disciplinari, alunni e tutto il personale della scuola hanno un ruolo.
Il considerare ogni soggetto interagente e attore di un processo modifica la percezione del problema.
È risultato, inoltre, molto interessante studiare alcune situazioni sperimentate in attività di tirocinio. Abbiamo apprezzato gli spunti ricevuti per la compilazione del PEI. Adesso non sarà più una compilazione automatica, ma approfondita e consapevole. Disponiamo di chiavi di lettura che prima non avevamo. Dopo il corso di Pedagogia Speciale, che abbiamo appena terminato di seguire, leggendo un PEI di una qualsiasi scuola, media o superiore, siamo in grado di interpretare la diagnosi funzionale che viene presentata perché possediamo gli strumenti necessari.
Accanto ai corsi più specifici orientati alla gestione dell’handicap, ci sono stati proposti approfondimenti più generali, utili a farci capire il contesto in cui opereremo. Quest’anno poi ci è parso che nell’organizzazione generale dei corsi, si sia prestata maggior attenzione alle nostre esperienze lavorative.
Io, ad esempio, precisa un’intervistata, dopo quindici anni che insegnavo, mi ero praticamente seduta (un po' per la difficoltà oggettive di noi precari: ogni anno cambiamo scuola e affrontiamo un ambiente nuovo. È difficile lavorare in queste condizioni!) e al di fuori della mia materia e del mio ambito circoscritto lasciavo “perdere”, non mi interessavo. Questi due anni di formazione mi hanno cambiata. Ritengo di aver allargato le mie vedute. Nonostante alcuni corsi siano pesanti, vado a lavorare molto più volentieri perché vedo la scuola sotto un altro aspetto, ai collegi docenti, sono più interessata e capisco molto più di prima.
Questo corso ci ha fatto riflettere sulla grande responsabilità che abbiamo come insegnanti di sostegno. Adesso, osserva una specializzanda, ho più paura di prima di svolgere il ruolo di insegnante di sostegno.

Se tutti i docenti, in momenti e modi diversi, diventassero insegnanti di sostegno, a lungo termine, si evolverebbe la professionalità dei docenti, migliorando la qualità nella scuola o no?
Se tutti gli insegnanti provassero a fare un anno di sostegno, si renderebbero conto delle effettive difficoltà: contattare i colleghi di disciplina per concordare gli obiettivi e i contenuti da svolgere con il disabile, individuare i tempi e i luoghi per la programmazione, reperire il materiale adatto alle reali capacità dell’alunno, concordare con i colleghi le scansioni del programma, mantenere i contatti con l'équipe socio-sanitaria, la classe, i docenti; l’insegnante di sostegno è infatti un ‘trait d'union’ tra tutti questi soggetti.
Non occorre arrivare al punto di far svolgere a turno ai colleghi il ruolo dell’insegnante di sostegno.
Se ogni insegnante di disciplina dedicasse dieci minuti, un quarto d’ora al giorno ad un’attività che coinvolge anche il disabile – evitando che questi sia “affidato” solo all’insegnante di sostegno – sarebbe già un bel passo avanti.

Avete osservato alcune “buone prassi” durante la formazione?
Tra le esperienze che abbiamo conosciuto ricordiamo l’Istituto “Paolo Boselli” di Torino (vedi box).
Si tratta di un istituto professionale molto grande con un’esperienza pluriennale di integrazione, dove si organizzano attività di tutoraggio tra compagni. Un nostro collega di corso ha esportato questa idea all’ISIP di Aosta con buoni risultati.
All’Istituto “Paolo Boselli”, un alto numero di ragazzi disabili, l’assenza di assistenti educatori e un certo numero di ore di sostegno scoperte sono state le condizioni che hanno trasformato alunni particolarmente capaci in tutor dei disabili.
Tra le buone prassi sono da annoverarsi anche le modalità di studio e di lavoro in classe che i corsi ci hanno insegnato: la valorizzazione del lavoro di gruppo, del lavoro cooperativo che danno la possibilità al ragazzo di inserirsi nel contesto, di socializzare; anche i ragazzi disabili hanno bisogno di avere delle certezze, di ottenere delle vittorie, di sentirsi capaci di fare. Lavorare inoltre sulle reali capacità dei disabili e cercare di raggiungere anche obiettivi cognitivi di disciplina è importante.
Noi da questo corso usciamo avendo chiara la distinzione tra la motivazione esterna e interna, intrinseca ed estrinseca: non si lavora sul voto, non si lavora sull'elogio materiale, ma sulla conquista della sicurezza personale, con sforzo, tempo, metodo.
Nella classe in cui stiamo effettuando il nostro tirocinio c’è una prassi interessante. Gli insegnanti giocano all'interno della classe un doppio ruolo, quello di insegnante curriculare e di insegnante di sostegno. L’insegnante di disciplina ha un orario ridotto e completa con il sostegno a un ragazzino con la sindrome di Down, così sperimenta modi diversi di fare didattica.
È una organizzazione interessante perché finalmente consente di realizzare un contatto vero tra insegnanti di disciplina e insegnanti di sostegno. Un’insegnante di educazione musicale, utilizzata per il sostegno, sempre nella stessa scuola, ha elaborato un progetto relativo all'educazione musicale: insegna, nella classe in cui è inserito il disabile che segue, anche la sua disciplina, prendendosi cura quindi del gruppo nel suo insieme ed presentandosi ai ragazzi e ai colleghi in due ruoli diversi.

Qual è l'aspetto più pesante della formazione? Come conciliare il lavoro di tutti i giorni con le lezioni, la stesura delle relazioni, la preparazione agli esami?
L'orario è vincolante e piuttosto gravoso, inoltre abbiamo formazione tutti i pomeriggi: la situazione è davvero pesante. Ho dovuto ridurre il mio orario scolastico, ho quattro figli e solo di notte riesco a studiare. Sono una persona che ricerca la formazione perché ne sento profondamente il bisogno, forse proprio per questo, avrei desiderato incontrare docenti meno “distanti”, più vicini alle nostre esigenze anche se, in linea di massima, sono soddisfatta dei corsi, commenta una docente intervistata.
Molte materie avrebbero potuto essere più approfondite. I laboratori sono stati troppo pochi. Ci è pesato l’assillo dell'esame, del voto (che per noi non ha nessun valore, perché alla fine entreremo in graduatoria con lo stesso punteggio con cui siamo inserite adesso), forse la valutazione è stata di tipo piuttosto accademico.
Comunque, questa formazione ci ha offerto le chiavi
per aprire nuove porte e accedere a nuovi saperi. Ignoravo del tutto le discipline umanistiche (Economia e Commercio non mi ha dato nessuna formazione umanistica), adesso ho acquisito un minimo di conoscenze di base. Il primo corso, con il Prof. Zennaro, è stato per me traumatico, ogni parola era arabo. Quest'anno, finalmente, mi sono ritrovata a capire ciò che diceva. Durante la formazione ci siamo anche rese conto che non esistono ricette magiche che miracolosamente ci indichino come ci dobbiamo comportare in classe, solo noi possiamo intuire le soluzioni, conclude una formanda.

Sulla base della vostra esperienza, quali sono le proposte per una formazione più efficace?
Dovrebbe essere favorito un contatto autentico tra l'Università e la scuola: noi portiamo l'esperienza, noi presentiamo le situazioni difficili, gli esperti universitari offrono le chiavi di lettura, così la teoria si unisce alla pratica e si condivide un percorso formativo.
Ci vorrebbe inoltre più tempo, due anni sono tanti, ma anche pochi, forse la formazione andrebbe distribuita meglio nel tempo. Nonostante la fatica, l’impegno di questi due anni, quando finiremo il corso, l'Università ci mancherà.

 

A cura della redazione
Insegnanti intervistate:
Chantal Celaia
Maria Grazia Coccia
Nercisa Juglair
Paola Molinaro
Luisa Spina


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