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Il bambino evento

Riflessioni di un capo d’Istituto che, ripercorrendo la sua esperienza, presenta percorsi di integrazione realizzati non solo all’interno di una classe, ma da tutte le componenti di una comunità scolastica.

I PARAMETRI DI RIFERIMENTO

Di inserimento (pardon, integrazione) di alunni portatori di handicap, possiamo andar fieri. Intanto come cittadini italiani: dal 1977, da quella legge straordinaria e potentissima che fu la storica 517, ne abbiamo visti di casi, ne abbiamo fatta di strada. E poi come cittadini di questa regione: l'amministrazione ha profuso risorse ingenti e, se i tagli degli ultimi anni ci hanno creato problemi, ci basta buttare un occhio sulle realtà delle altre regioni per smettere di lamentarci. Almeno per quanto riguarda i mezzi messi a disposizione.
Abbiamo, negli anni, dimenticato le esitazioni e le ansie degli esordi. Nella biografia di ogni insegnante e di ogni capo di istituto credo sia scritto il ricordo del proprio "primo giorno di scuola" con l'alunno diverso e del relativo corteo di dubbi, di timori di inadeguatezza.
Abbiamo costruito un vocabolario e, nel tempo, lo abbiamo mutato, a volte per renderlo politicamente corretto, a volte perché le acquisizioni culturali si riflettono giustamente sul lessico quotidiano: alunno handicappato, portatore di handicap, svantaggiato, diverso, disabile, diversamente abile, diversabile…
Ci siamo vantati, a ragione, con i colleghi stranieri che ci raccontavano dei loro istituti ad hoc, raccogliendone come dovute le espressioni di ammirazione, o respingendone le perplessità con cortesia argomentata e con una piccola punta di sussiego. Abbiamo messo su personale esperto: insegnanti che hanno conseguito il titolo specifico ed hanno accumulato serena, concreta esperienza. Abbiamo capitalizzato strategie organizzative, didattiche, relazionali, interistituzionali.
Abbiamo creato generazioni di alunni capaci di vivere accanto al compagno diverso con naturalezza, senza stupori indiscreti, senza ambigui pietismi. Abbiamo ottenuto che le famiglie considerino normale che nella classe del proprio figlio ci sia un bambino particolare e siano disposte alla collaborazione o semplicemente all'accettazione senza che si debbano organizzare faticose mediazioni. Dichiariamo che nelle nostre scuole l'alunno disabile è inserito, pardon, integrato a tutti gli effetti. E diciamo la verità.
Ma se si è arrivati fin qui, comunque la coscienza collettiva deve anche essere grata a qualcuno. Questo qualcuno è il bambino evento.

L'EVENTO

Nella storia di tante scuole si è verificato infatti un giorno "l'evento". È arrivato lui, il bambino speciale. Speciale in negativo.
Tipicamente: è maschio, è robusto. È quello che le nonne dicono "un bel bambino". Ma è malato di mente. Non importa se è autistico, schizofrenico, psicotico… Importa che è violento. Ha crisi di aggressività improvvisa durante le quali si dice sia pericoloso. È infatti già accompagnato da una fama diffusa e perturbante. Sta cambiando scuola perché ha concluso il ciclo precedente o, peggio, perché l'ambiente che l'ha accolto fino a ieri non ce la fa più e lo iscrivono da te "perché la struttura è più adeguata". E tu, che hai classi non sature, devi dire di sì.

"Bisognerebbe che conoscessi meglio gli ultimi mesi della sua vita, disse il dottor Cardoso, forse c'è stato un evento. Un evento in che senso, chiese Pereira, che cosa vuol dire questo? Evento è una parola della psicoanalisi, disse il dottor Cardoso, non è che io creda troppo a Freud, perché sono un sincretista, ma credo che sul fatto dell'evento abbia ragione senz'altro, l'evento è un avvenimento concreto che si verifica nella nostra vita e che sconvolge o turba le nostre convinzioni e il nostro equilibrio, insomma l'evento è un fatto che si produce nella vita reale e che influisce sulla vita psichica, lei dovrebbe riflettere se nella sua vita c'è stato un evento. Ho conosciuto una persona, sostiene di aver detto Pereira…"

(da Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi,
I Narratori, Feltrinelli, 1995, p. 121)

Intanto nella tua scuola i bambini hanno già paura di lui, perché conoscono ciò che su di lui si racconta e si affabula. Le famiglie non ne vogliono sapere: la notizia del nuovo arrivo si è subito diffusa, alcuni genitori si sono già incontrati e chiedono riunioni, informazioni, garanzie "non perché lo si rifiuti, ma per tutelare i nostri figli…" In sala insegnanti la tensione è palpabile: "Perché è venuto proprio da noi? Non che lo si rifiuti, ma dobbiamo tutelare gli altri alunni…" Bidelle e segretari sono in allarme: nell'altra scuola il bambino speciale ha colpito anche lì.
Di colpo, il patrimonio sulla cultura dell'integrazione, che pareva così consolidato, si sgretola fragorosamente e si dissolve. Fatichi a trovarne le ceneri. Al suo posto si è innalzato un muro di difesa. E sia detto senza equivoci: ci sono tutti gli estremi per capire quali sono le ragioni per le quali proprio quel muro si è innalzato.
In effetti, tutte le strade già percorse sono bloccate.
Attività didattica differenziata, studiata apposta, costruita passo passo, confezionata su misura? Praticabile solo se e quando lui ci sta.
Ore "coperte"? Il semplice contenimento sembra puro miraggio. E noi non siamo qui per contenere, siamo qui per insegnare. A lui e agli altri.
Ore "non coperte" da insegnante di sostegno o assistente educatore? Un incubo della peggior specie.
In classe con i suoi compagni, da solo o con il sostegno? Non se ne parla: può succedere di tutto.
Isolato in uno spazio tutto per lui? Impossibile: si ribella e fugge appena può. Se lo si costringe, si scatena rompendo tutto.
E la scuola continua. Ma non può continuare come prima.
Già detto in premessa: un evento impone la revisione dell'esistente.

IL GIOCO DELLE RELAZIONI

A questo punto, ogni attore sulla scena deve riscrivere la sua parte, compreso il capo di istituto, che può buttare nella spazzatura i suoi vecchi copioni.
I "tecnici" (neuropsichiatra infantile, psicologo, assistente sociale, équipe) individuano alcune condizioni preliminari. Non si tratta di strutture materiali, ma di dimensioni psichiche. Spiegano: è un bambino ossessionato dalla paura. La paura lo rende aggressivo. Le sue aggressioni suscitano paura negli altri, che si difendono allontanandolo e isolandolo. L'isolamento aumenta la sua paura e quindi la sua aggressività. È una catena da spezzare. Come? Abbassando le difese…
Si organizza l'informazione sulla possibile strategia presso tutte le componenti della scuola. Si propone una linea: questo alunno è di tutta la scuola, di tutti gli insegnanti, di tutte le classi. Proviamo a sperimentare con molta gradualità diversi contesti, purché potenzialmente costruttivi.
I genitori degli altri vengono riuniti, come hanno richiesto. Si spiega come si intende procedere. Si promette una verifica. Gli animi sono incerti. C'è voglia di solidarietà, ma anche tanta preoccupazione.
Le bidelle partono per prime. Curiose e intenerite, sotto gli occhi vigili dell'insegnante di sostegno o dell'educatore, lo accolgono ogni mattina. Lo coccolano. Gli fanno trovare qualche caramella. Qualcuna azzarda una carezza. Ne viene ricambiata e si commuove. L'ingresso a scuola è ogni mattina meno teso.
Il bambino esplora il piano terra. In segreteria gli chiedono: ciao, chi sei? Quale insegnante ti manda? Che cosa ti ha incaricato di chiedere? Sperano che non succeda niente. Non succede niente.
L'istituto si riorganizza. Abbiamo insegnante di sostegno ed educatore. Si reperiscono alcune ore di un paio di insegnanti più disponibili perché il bambino non sia mai solo. La copertura è assicurata.
Si pensa di inserirlo non soltanto nella sua classe, ma in più classi, secondo le attività. Si può? chiedono gli insegnanti. Si deve, risponde il capo di istituto. E chi si assume la responsabilità? La responsabilità non si può declinare, è la risposta.
Sappiamo per certo che le attività di manipolazione lo coinvolgono. Perciò lo inseriamo dove queste si svolgono. Anche l'educazione fisica si presta. Anche le uscite didattiche. Piano piano, il bambino scopre di avere tanti compagni di scuola. Con qualcuno si instaura un embrione di relazione, fatta di simpatia e di reciproca curiosità. In qualche classe la cosa funziona meglio che in altre: lì si intensificano le presenze con gradualità e attenzione. Dopo qualche mese, Il bambino può passare gli intervalli insieme con gli altri. E poi il quasi miracolo: si riesce a farlo partecipare alla refezione senza turbare il clima generale.

UN LIETO FINE POSSIBILE

Giorno per giorno, si arriva ad una routine tranquilla. Il docente di sostegno programma tenendo d'occhio la classe di riferimento e tutta la programmazione dell'istituto, l'educatore collabora, accompagna, integra. La sua classe e le altre spesso "curvano" la programmazione per fargli spazio. La gestione condivisa allenta le tensioni e moltiplica le opportunità di crescita.
I momento critici ci trovano attrezzati: a livello di spazi, di interventi di docente e di assistente educatore, di consulenza psicologica e psichiatrica.
Non ci sono incidenti con gli altri alunni, i cui genitori, di nuovo riuniti come promesso, si dichiarano tranquilli.
Ci stiamo dimenticando di quanto questo bambino fosse speciale. Nemmeno ci rendiamo conto di quanta strada abbiamo fatto dal giorno in cui l'abbiamo preso per mano. Abbiamo potuto farlo perché abbiamo avuto i mezzi; ma ognuno ha dovuto metterci dentro un pezzettino di sé.
In cambio, alla fine del corso di studi, lui ci ha detto : "Vi voglio bene perché mi avete voluto bene".
E tanto ci basta e ci accompagna.

UNA LEZIONE SULL'UGUAGLIANZA

Oltre a questi casi, altri bambini evento, alunni con gravissime disabilità (mi riferisco a patologie fisiche e psichiche molto particolari, a tetraparesi, a vite quasi vegetative, ad esistenze al limite) o con minorazioni che richiedono interventi didattici molto mirati e tecnicamente complessi (quali le ipoacusie) ci hanno posto di fronte alle stesse domande (che senso ha la frequenza della scuola per questo bambino? che senso ha per la scuola? quali sono i nostri compiti? dove possiamo arrivare? e come?) e ci hanno impartito la stessa lezione di uguaglianza.
Se ci riflettiamo, scopriamo che il contributo dei "bambini evento" è stato determinante perché capissimo che la strada dell'integrazione è fatta di spregiudicatezza, nel senso etimologico del termine.
Questi alunni, infatti, ci hanno costretto ad abbandonare tutti i nostri pre-giudizi. Quelli positivi in primo luogo. Tutte le certezze e le routine che avevamo messo insieme prima di loro hanno infatti dovuto essere rilette e riviste quando essi si sono presentati nelle nostre scuole e, con mitezza, per il semplice fatto di esistere in un certo modo, ci hanno imposto di pensarli e di ripensarci. Tutte le applicazioni della normativa hanno dovuto essere riconsiderate e riscoperte nelle loro potenzialità.
Con loro abbiamo imparato che l'integrazione è fatta di strade ogni volta diverse.
Che l'inserimento di ogni bambino è assolutamente individuale: dalla strutturazione dell'orario - suo e dei docenti - all'inserimento nelle classi, all'organizzazione degli apprendimenti, tutto va costruito sul caso. La frase "abbiamo sempre fatto così" non può essere pronunciata.
Che ogni bambino disabile ha bisogno di un suo percorso; che l'integrazione non è un dato di partenza, ma una meta alla quale tendere e verso la quale procedere attraverso la concertazione di tutte le componenti, scolastiche ed extrascolastiche.
Che, a volte, anche un'aula a parte può costruire l'integrazione.
Che la normativa (sull'handicap, sull'autonomia, sulla contabilità) ed il raccordo con le altre istituzioni sul territorio possono aprire strade nuove ogni volta.
Che quando l'integrazione è organizzata in modo pragmatico e funzionale, diventa un beneficio anche per i "normali", i quali imparano nella serenità come si pratica la relazione con il diverso e ne traggono di che crescere sensibili, responsabili, solidali. Anche gli alunni tradizionalmente più problematici, più indisciplinati e ribelli, rivelano i lati migliori della loro personalità quando sono messi di fronte a questi compagni speciali.
Ma abbiamo anche imparato che non ci deve essere eguaglianza tanto apparente quanto falsamente rassicurante.
Che, per realizzare l'uguaglianza, si deve perseguire la differenza.

Graziella Porté
Dirigente scolastico Istituzione scolastica Aosta 5


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