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Conversazione con il Direttore della Caritas diocesana di Aosta
Don Ugo Bosco

Qual è il suo punto di vista sulla condizione dei figli degli immigrati?
Quali osservazioni può fornire agli insegnanti?

Non penso di avere uno sguardo così privilegiato che mi permetta di individuare altro, rispetto a ciò che insegnanti preparati e motivati osservano ogni giorno. La nostra società è sempre più multiculturale e la scuola che ne è lo specchio, a fronte delle recenti immigrazioni, ha classi con bambini immigrati che vanno aumentando.
Da qui la necessità di pensare ad un’educazione interculturale che sviluppi soprattutto l’integrazione. Penso, osservando anche la realtà di Gignod, quella in cui opero, che la scuola stia facendo, in generale, un buon lavoro per l’inserimento dei bambini extra-comunitari.
Ciò che forse invece ancora manca è lo sforzo di tutti per superare i pregiudizi. Integrare però non deve voler dire rinunciare o cancellare la cultura d’origine, quella di appartenenza. Dopo un primo momento, quello in cui si insegna ai bambini la lingua italiana, occorrerebbe consentire loro di approfondire anche la propria cultura. Perché, se partiamo dal presupposto che l’immigrato non è solo una minaccia da cui difendersi o un problema, ma anche una risorsa, deve diventare anche risorsa culturale per ognuno di noi e per la nostra società. E una risorsa la si accoglie, la si coltiva, la si sviluppa, al pari di una coltura.

Quali suggerimenti darebbe agli insegnanti che vogliono fare "Accoglienza"?
Partendo dal fatto che l’accoglienza è innanzitutto il rispetto della diversità e della cultura di ognuno, li inviterei a considerare il fatto che “non essere accolti” o essere accolti “male” può creare o lasciare ferite profonde nel cuore dell’altro soprattutto se bambino. Ma li rassicurerei nel loro compito di educatori, davvero complesso, perché la piena e vera accoglienza è difficile.
Come credente penso che solo Dio sia capace davvero di incontrare l’altro e che una vera accoglienza sia un dono che ci viene dall’alto. Ma siccome l’altro, rivela a me stesso chi sono e in quella rivelazione io mi costruisco, l’alterità è fondamentale per poter crescere. Quindi accogliamo pure l’altro, ben sapendo che dopo quell’incontro non saremo più gli stessi. L’esperienza con l’altro ci avrà cambiato enormemente. In meglio, aggiungo io. Soprattutto se l’altro è così diverso da noi. Quanta ricchezza da quell’incontro!

Come si costruiscono i presupposti per il dialogo?
Come ho già detto, togliendo o cercando di eliminare i pregiudizi.
I pregiudizi condizionano negativamente i rapporti, impediscono i presupposti per una giusta conoscenza. Se riusciamo ad eliminarli, il dialogo verrà, un po’ alla volta. Certo ci vuole tempo. Basti pensare all’immigrazione calabrese del dopo guerra in Valle d’Aosta. All’inizio non fu semplice, solo adesso, dopo tanti anni, possiamo parlare di integrazione riuscita.
I presupposti al dialogo sono: di carattere religioso (ad alcune religioni, molto settarie, manca questa apertura) e di carattere sociale (se vedo nell’altro un rivale, colui che mi “prende” il posto di lavoro, non lo aiuto di certo). Occorre fare uno sforzo per superare queste difficoltà, questi filtri, che impediscono la piena e incondizionata fiducia nell’altro ed inibiscono un dialogo costruttivo tra soggetti culturalmente diversi.

La scuola, svolge ancora una funzione di emancipazione sociale?
La scuola, anche in futuro, dovrà svolgere questa funzione perché se non è la scuola a farlo, chi lo farà? Oggi la chiesa ha un ruolo piuttosto marginale rispetto alla scuola pubblica che, paradossalmente, trovo persino più evangelica perché luogo più aperto all’incontro tra culture diverse, mentre mi risulta che in alcune scuole private, di tipo confessionale, si chieda, al momento dell’iscrizione, il certificato di battesimo dei bambini come per ricevere i sacramenti. In una scuola aperta e accogliente per tutti si può imparare la pace sin da piccoli. Sarebbe bello imparare la pace sin da piccoli sui banchi di scuola, seduti uno accanto all’altro, ciascuno un po’ uguale e un po’ diverso dal compagno. L’educazione al rispetto e alla diversità può realizzarsi in una scuola pubblica che accoglie tutti e che investe nella qualificazione dei suoi insegnanti. È in una scuola pubblica e di qualità per tutti che si garantiscono i diritti fondamentali per ognuno. Il diritto sgombra il campo dagli equivoci: immigrati non più come forza lavoro, ma immigrati come persone con uguali diritti e doveri.

Quale riflessione conclusiva?
La Chiesa potrebbe, nelle scuole gestite da istituzioni religiose, privilegiare maggiormente il dialogo tra le culture, anche tra genitori di religioni ed etnie diverse ed essere così all’avanguardia nel campo dell’educazione interculturale. Il significato dell’aggettivo “cattolica” che si può dare, da noi, a quasi tutta la scuola privata è “universale”, non settoriale o uniculturale. Operando una tale scelta di campo, le istituzioni scolastiche gestite da religiosi, si caratterizzerebbero nell’ambito dell’accoglienza e dell’educazione dei figli degli immigrati che vengono a servire, popolare ed arricchire le nostre società.
In conclusione, occorre smettere di pensare che gli immigrati vanno aiutati altrove, nel loro paese d’origine ed inviare loro aiuti umanitari perché così salviamo le nostre coscienze e ci sentiamo meno in colpa. La gente va aiutata là dove si trova. Gli immigrati sono qui, con noi, adesso. E qui vanno aiutati.

A cura di Agnese Molinaro

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