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La specificità e i fondamenti di una pedagogia interculturale

La riflessione teorica affiancata dalla ricerca empirica definiscono, qui, in una prospettiva antropologico-educativa il senso della pedagogia interculturale.

Quando L'École Valdotaine mi chiese un breve testo per questo numero della rivista, mi furono proposte alcune questioni su intercultura e pedagogia che prendo come punto di partenza per cominciare il mio discorso: esse riguardavano la specificità e i fondamenti di una pedagogia interculturale, la sua eventuale differenza dalla pedagogia generale, nonché - in una prospettiva più sociopolitica - gli scenari scolastici e sociali del futuro. Si tratta di questioni che richiederebbero risposte non semplificanti e certamente meno concisamente accennate di quello che potrò fare (per i vincoli di dimensione del testo), ma proverò ugualmente ad accettare la sfida, affrontandola dalla prospettiva antropologico-educativo che caratterizza sia la mia riflessione teorica sia la mia ricerca empirica. Nell'Europa continentale si parla da ormai quasi vent'anni di intercultura, pedagogia ed educazione interculturale: il Consiglio d'Europa, già alla metà degli anni ottanta, sollecitava attenzione e sensibilità per la diversità culturale, riprendendo, in modo forse astratto ma sicuramente provocante, le prese di posizione che avevano introdotto la svolta politica ed epistemologica del multiculturalismo e dell'educazione multiculturale negli Stati Uniti circa quindici anni prima.
Nei movimenti delle minoranze americane la domanda di riconoscimento di una differente identità collettiva veicolava una domanda di giustizia che individuava nell'educazione (scolastica ed universitaria) un ambito dove occorreva - e urgentemente - cambiare molto nei curricoli, nella didattica, nelle prospettive di ricerca e intervento (Gittel 1967, Gobbo 1977, Berube 1994).
L'identità che all'alba degli anni settanta identificava gli afroamericani o i nativi d'America come differenti dalla maggioranza era definita in termini culturali: essa era caratterizzata da una diversa visione del mondo (che si opponeva senza sfumature a quella della maggioranza bianca o wasp1)la quale attribuiva un significato profondamente diverso ai processi e alle istituzioni sociali e promuoveva un modo di agire nel mondo interpretato come divergente se non addirittura contrapposto a quello prevalente (considerato valido anche per le minoranze). Saranno gli antropologi dell'educazione a riprendere in termini euristici e poi teorici quella "rivoluzionaria" affermazione di diversità culturale, individuando vari livelli di discontinuità tra l'orientamento culturale con cui alunne e alunni arrivavano a scuola e la scuola stessa (Wolcott 1967,1974, Philips 1993, Ogbu 1996a, 1996b, Gobbo a cura di 1996, Gobbo 2000).
Sebbene la qualità "rivoluzionaria" del multiculturalismo si sia nel frattempo fortemente attenuata e si facciano sempre più spesso sentire le voci critiche verso il medesimo e i rischi che può comportare in campo educativo (tra i primi, proprio gli antropologi dell'educazione, cfr. Gibson ed. 1976)2, mi sembrano ancora condivisibili (benché sempre aperte ad essere messe in discussione dai risultati di ricerche empiriche e dalle riflessioni teoriche) le conclusioni cui gli antropologi dell'educazione erano giunti, e cioè che alunni (e insegnanti) sono contemporaneamente individui e membri di gruppi etnici, o linguistici, o religiosi, o socioculturali3. In effetti, da allora abbiamo imparato che ciascuno di noi parla sempre con una voce che è l'effetto - o meglio la metafora (Goodman 1967) - del modellamento culturale ricevuto attraverso l'inculturazione, e che può arricchirsi (grazie alla fondamentale capacità umana di apprendere) di tonalità vocali e registri comunicativi differenti da quello inaugurale4.
In questa prospettiva - che ho definito di "quotidiana diversità" e che auspicabilmente produce in ciascuno di noi una condizione di "condivisione interculturale" - l'obiettivo educativo di ampliare e problematizzare il proprio orizzonte culturale grazie ali''incontro con persone diversamente inculturate, alla conoscenza delle culture (o delle religioni) che hanno modellato almeno inizialmente il loro senso di appartenenza, e alla comprensione di tali altri modi di vivere, agire e credere, deve essere considerato come un obiettivo al tempo stesso interculturale e generale.
Storicamente (ma si tratta soltanto di una manciata di anni) l'obiettivo interculturale è stato formulato per quelli che percepiamo differenti da noi o che definiamo tali per la loro esperienza di emigrazione, ma che in realtà non può non coinvolgerci, chiedendoci di mettere in discussione la nostra presunta omogeneità culturale e spingendoci a riflettere sulla nostra diversità culturale. Infatti, se la pedagogia interculturale si fonda sulla consapevolezza dei processi che contemporaneamente producono identità e differenza5, e se questi processi riguardano ogni essere umano, interrogandoci sull'altro non possiamo fare a meno di interrogarci su di noi. Quando arriviamo (e purtroppo ciò non sempre avviene), o comunque ci sforziamo di comprendere modi e ragioni a noi estranei, arriveremo anche a comprendere modi e ragioni a noi talmente familiari da darli troppo spesso per scontati, e da dispensarci di dirigere il nostro sguardo critico (e dunque di valorizzarlo) sulle premesse e le conseguenze del nostro modo di vivere, di entrare in relazione con gli altri e con il mondo. La pedagogia interculturale ha individuato nella scuola l'istituzione dove tali percorsi di conoscenza, autoriflessione e comprensione reciproca possono realizzarsi per la disponibilità e l'impegno professionali ed umani degli insegnanti (cfr, fra gli altri, Giovannini a cura di 1996; Giovannini, Queirolo Palmas a cura di 2002; Fischer, Fischer 2002), D'altro canto, le conclusioni interpretative delle ricerche antropologico-educative (che ci forniscono una indispensabile prospettiva comparativa, essendo state in prevalenza svolte in contesti non italiani) parlano della scuola come di un complesso ambiente sociale e culturale che può chiudere o aprire possibilità agli studenti e che rappresenta, per loro e le loro famiglie, ciò di cui ci si può o non ci si può fidare, ciò su cui ciascun gruppo elabora teorie diverse, e infine ciò che diversamente interviene nella loro storia e nella storia dei loro rapporti con la maggioranza (in relazione a questi ultimi due punti le ricerche sulla scolarizzazione di bambini sinti e rom6, e su quella degli alunni della minoranza occupazionale di giostrai e circensi sono molto "istruttive"7).
Se l'obiettivo educativo mira ad innovare positivamente il contesto scolastico in modo da valorizzare, da un lato, le diversità in esso presenti e, dall'altro, gli orientamenti, gli interessi e i valori comuni altrettanto presenti, questo - avverte l'antropologia dell'educazione - sarà più efficacemente raggiunto se i modi dell'organizzazione, della cultura e dell'attività scolastiche, l'incidenza della cultura giovanile e il senso di appartenenza plurale che vi può venire elaborato non saranno trascurati nella programmazione degli interventi interculturali e più in generale nell'articolazione del discorso pedagogico interculturale - e, last but not least, potrà contribuire ad instaurare l'obiettivo dell'equità, quanto meno a scuola (Gobbo 2000). Oggi, in Italia, una buona parte delle attività di aggiornamento interculturale degli insegnanti è dedicata alla didattica dell'italiano per gli studenti immigrati o figli di immigrati, mettendo in qualche modo tra parentesi quegli obiettivi tradizionalmente definiti come interculturali, più sopra esplicitati. É certamente comprensibile la preoccupazione di "equipaggiare" i nuovi arrivati con quella fondamentale competenza che permetterà loro di accedere e condividere il percorso di apprendimento con il loro compagni di classe, tanto più che la loro positiva partecipazione alla vita scolastica è molto spesso determinata dalla capacità a "diventare scolari" e di comportarsi come tali (ovvero comprendere i modi e le regole della cosiddetta cultura della scuola, che certamente include anche i momenti della valutazone e dei risultati dell'apprendimento, senza peraltro esaurirsi in essi).

L'impegno a realizzare tale importante, e condivisibile, traguardo educativo non deve però farci dimenticare che una scolarizzazione "riuscita" può anche significare un'esperienza "sottrattiva" dell'identità linguistica, culturale o etnica di un gruppo di studenti, o la trasformazione, non sempre positiva, delle relazioni familiari (cfr. Omodeo 2002). Peraltro, concentrare gli sforzi didattici quasi prevalentemente sull'italiano L2 comporta un rischio, e cioè spingere in secondo piano sia la loro personale competenza comunicativa (la quale, incorporando nel linguaggio le regole sociali e culturali secondo cui è utilizzato, deve essere distinta dalla competenza grammaticale, sintattica e lessicale che correntemente chiamiamo linguistica) sia la dimensione culturale e identitaria di tali studenti. A proposito di quest'ultima, le ricerche antropologiche condotte nelle scuole di differenti paesi europei mettono in guardia insegnanti e pedagogisti del l'intercultura dall'attribuire una identità etnica e culturale a tali studenti, considerandola come la loro identità, "fissata" una volta per tutte e per sempre. C'è almeno una ragione importante per continuare a confrontarsi teoricamente e praticamente con tale dimensione: gli studenti immigrati, o figli di immigrati (che, nati in Italia e frequentanti la scuola dell'infanzia, già da piccoli imparano la nostra lingua) si inseriscono ben presto - come gli insegnanti non mancano mai di notare - in un percorso di socializzazione e di apprendimenti informali che si svolge grazie a, e insieme ai loro compagni di classe, con cui giungono a condividere gli interessi caratteristici della loro età e da cui è spesso difficile distinguerli - quanto al comportamento.
Recenti ricerche etnografiche (Bhatti 2003, Soenen 2003) testimoniano di una "condivisione interculturale" che permette ai giovani e ai giovanissimi di alternare tra il sapere e i comportamenti appresi in famiglia, quelli appresi a scuola nella veste di scolari, e quelli appresi o costruiti tra i pari.
Se la "quotidiana diversità" e la "condivisione interculturale" costituiranno dei punti di riferimento (e di discussione) per la riflessione pedagogica e la pratica educativa, la pedagogia interculturale e quella generale potranno concordare non occasionalmente sul senso di un'esperienza scolastica dove l'incoraggiamento a rispettare le persone e i diversi punti di vista si accompagni all'impegno per fare apprezzare la dignità degli altri e per la varietà di opinioni, e dove l'insegnamento e l'apprendimento delle tradizioni di ricerca e di elaborazione storica, letteraria e artistica sia anche un modo per costruire un senso di appartenenza più ampio, fondato - per riprendere le parole di un importante filosofo dell'educazione - sull'amore per la verità e la giustizia (Schemer 1973).

Francesca Gobbo
Professore straordinario di Pedagogia interculturale nella facoltà di
Scienze della Formazione all’Università degli Studi di Torino.
Ha studiato Antropologia dell’educazione all’University of California, Berkeley.
É nell’editorial board della rivista internazionale "Intercultural Education" e referente per l’educazione interculturale e l’etnografia nella European Educational Research Association.

 

Referenze bibliografiche

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Note

1 Wasp è l'acronimo di White Anglo Saxon Protestants, e ovviamente si riferisce all'identità dei discendenti dei coloni americani che, irrobustita dagli immigrati successivamente giunti da aree del nord Europa e di religione protestante, continuerebbe a rappresentare lo standard culturale rispetto a cui misurare il grado di integrazione sociale delle minoranze.
2 Un aggiornamento della discussione, soprattutto attraverso e voci dei filosofi, si trova in Gobbo 2003a.
3 Oltre all'ampia documentazione internazionale su questo punto, interessanti sono i contributi degli antropologi Cuturi (2003) e Spaglia (2003). Occorre aggiungere che il riconoscimento degli studiosi di un'identità differente da quella di maggioranza si è accompagnato (e si accompagna tuttora, in molti casi) al riconoscimento della condizione di disparità e di diseguaglianza che caratterizzano il percorso di tali alunni e studenti.
4 Questo orientamento socio-culturale e pedagogico aperto non deve tuttavia farci dimenticare che esso troppo spesso non è possibile a causa di un "differenziale di potere" storicamente determinatosi che ostacola l'accesso e la formazione di competenze ulteriori (Goodenough 1976), o perche l'esistenza di un gruppo e della sua cultura richiedono una lealtà esclusiva, come ad esempio è per gli amish.
5 Giova ricordare che il processo di trasmissione/acquisizione culturale - e le opportunità presenti in una determinata società - ci fa diventare competenti nei modi, saperi, credenze, comportamenti e valori del gruppo o dello strato sociale entro cui siamo venuti a nascere e assegna a ciascuno un'identità, fondata sul senso di appartenenza ad una collettività locale/etnica e nazionale, linguistica e/o religiosa, cui si affiancheranno poi le identità connesse al gruppo dei pari, all'ambito occupazionale, associazionistico, politico, sovranazionale, eccetera.
6 Cfr. Gomes 1998.
7 Vedi Gobbo 2003b.

 

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