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Questione di valori

Quale senso dare all’esperienza scolastica? Un rapido excursus dalla scuola attiva alla pedagogia istituzionale mette in luce i valori etici che sottendono al lavoro degli educatori e orientano la riflessione dei movimenti educativi.

Sono stato coinvolto dalla redazione della rivista, nella messa a punto di questo numero e mi è stato chiesto un contributo all’interno della tematica della “legalità”, della “democrazia”, ma è difficile... da dove partire?
Sono passati quasi trent’anni dal mio esame di maturità e ricordo due cose con nitidezza, l’aver svolto un tema a carattere pedagogico sul significato educativo del lavoro di gruppo e l’aver portato, come opzione facoltativa, un piccolo dossier sulla scuola attiva francese, la scuola popolare di Célestin Freinet.
Già allora mi pareva fosse una questione di “valori” e quella corrente pedagogica mi sembrava potesse rappresentare un punto di riferimento.
Ecco, partirò da lì, da quella domanda di fondo che la scuola attiva e la “pedagogia istituzionale” hanno posto nel tempo: quale senso dare all’esperienza scolastica?
In particolare, in questo momento politico in cui sembrano prevalere la dimensione dell’individualismo e della competitività, la legge del più forte e la difesa degli interessi personali, che senso ha porre l’accento sulla dimensione cooperativa dell’apprendimento e sui valori sottesi alla professione dell’insegnante?
Probabilmente significa recuperare la dimensione del desiderio, della motivazione e dell’interesse, per non dimenticare che siamo “esseri al mondo con dei simili” in un costante rapporto di scambio, in continua azione interattiva e che la scuola, come luogo di parola, dovrebbe permettere di “dialettizzare tali scambi”.
Nelle nostre classi, nel nostro sistema scolastico è invece spesso “la parola di altri che, più o meno felicemente, è ripetuta, imparata, rifiutata, a volte capita, più spesso dimenticata”(1) costringendo in tal senso l’insegnante in una posizione di “custode” piuttosto che di educatore. L’educazione nuova, diceva Freinet, scaturisce invece dal lavoro con gli alunni/bambini piuttosto che sugli alunni/bambini.
Riprendendo e parafrasando ciò che dice Jacques Tardif a proposito della “motivazione”(2), si tratta di permettere all’alunno di esercitare un potere su ciò che gli è chiesto di fare (in termini sia di obiettivi sia di compiti): solo in tal modo potrà concludere con successo un percorso e sarà disponibile a decidere se impegnarsi o meno e se vale la pena correre dei rischi, in caso contrario la riuscita o l’insuccesso non saranno percepiti come dipendenti dalla propria responsabilità.
E ancora: “L’apprendimento, riconosciuto come aumento dell’autonomia e della capacità di coordinazione reciproca, apre una prospettiva che investe la dimensione operativa dell’insegnamento. In tal senso, il gruppo-classe costituisce un contesto sociale con una funzione precisa rispetto all’apprendimento stesso, in cui si possono sviluppare incontri che danno luogo (anche attraverso l’innesco di dissonanze e conflittualità socio cognitive) a ricerche complesse di coordinazione reciproca tra soggetti diversi in un ambiente comune. Perché le diversità tra soggetti e modi di imparare diventino positivamente significative e consentano di dare luogo anche a quel conflitto costruttivo di carattere socio-cognitivo a cui si accennava, la classe deve essere aiutata a costituirsi come gruppo. Questo non è solo necessario perché la socialità costituisce un ambito di crescita di cui la scuola deve occuparsi, ma anche perché è molto importante per la qualità dell’apprendere di ciascuno e del gruppo che siano riconosciute, accolte e valorizzate le originalità delle costruzioni cognitive individuali. La gestione della classe richiede da parte dell’insegnante una azione costante di mediazione che ha una valenza precisa sul piano culturale.(3)
Certo, tali affermazioni lasciano quesiti aperti in relazione all’equilibrio tra la dimensione sociale/relazionale e quella cognitiva, quasi fossero in contrapposizione; “vecchia” diatriba e, giova ricordarlo, l’incontro tra Freinet e la pedagogia istituzionale nasce proprio da un insieme molto ampio di contributi, che vanno dall’attenzione al “leggere, scrivere, far di conto” attraverso un vasto sistema di mediazione (le “tecniche” della tipografia, degli schedari, gli ateliers ecc.), all’interno di un’organizzazione cooperativa del gruppo classe capace di rispettare gli individui nelle loro potenzialità e difficoltà, sino al riconoscere al gruppo la dimensione del “noi” in alternativa alla somma di individualità.

L’incontro tra alcuni psicoterapeuti di impostazione psicanalitica (François Tosquelles, Jean Oury) e alcuni insegnanti che facevano riferimento al movimento Freinet (Aïda Vasquez, Fernand Oury) origina la costituzione di un gruppo nel cui documento di presentazione del 1962 si delinea chiaramente l’impostazione di fondo.
Nel campo pedagogico ci sembra essenziale l’utilizzazione delle strutture del gruppo istituito e del collettivo. Questa utilizzazione suppone relazioni interindividuali e un intrecciarsi di scambi materiali, affettivi e verbali; richiede la presa di coscienza dei ruoli, delle leggi inconsce che fondano le relazioni, l’utilizzazione possibile dei conflitti, l’attivazione di ideali comuni e del rispetto della particolarità di ognuno. Presuppone lo studio sistematico della personalità del bambino - rilevando l’importanza della sua dimensione storica e del suo radicamento nell’ambiente sociale - nello stabilire relazioni di collaborazione educativa con i genitori.
Sono assolutamente necessarie la presa in carico su di un arco di tempo più ampio dell’anno scolastico e di conseguenza la ricerca di una articolazione della classe con l’insieme del gruppo scolastico.
Ugualmente è necessario lo studio della posizione del maestro nel gruppo classe, la distinzione tra quello che egli rappresenta simbolicamente e quello che rappresenta sul piano immaginario di fronte al bambino.
Le tecniche usate nella classe - tecniche di espressione libera motivata dal giornale di classe, corrispondenza interclasse, cooperazione sul piano dell’amministrazione della classe, tecniche di studio dell’ambiente, ecc. - devono essere numerose, non limitate e molto diverse. Sono il supporto delle relazioni e permettono l’affiorare di affinità inespresse, la mediazione in certe relazioni, un reticolato materiale istituzionale. Sullo sfondo di tecniche molto diverse alcune tecniche privilegiate sono particolarmente adatte ad agire direttamente sull’ordinazione del gruppo. Queste tecniche devono condurre all’edificazione di un ambiente educativo tollerante:
- dove le facoltà di ognuno su di un arco di possibilità assai vasto possono svilupparsi ed essere utilizzate dal gruppo in una complementarietà positiva dove ci si aiuta reciprocamente;
- dove tutte le forme di espressione e di curiosità sono accettate dal gruppo e all’interno del gruppo;
- dove un ordine preciso nasce dalla volontà di tutti di lavorare e progredire in comune e stabilire una razionale divisione di compiti e di decisioni;
- dove la competizione non esiste tra i bambini, e le facoltà intellettuali e verbali non sono le sole coltivate e non sono il solo criterio di riuscita;
- dove ogni apporto esterno alla classe è considerato un elemento di cultura e di educazione
”.(4)
L’evoluzione francese vede nel corso degli anni aumentare il confronto, a volte sfociato in fratture e distinguo, ma si delinea anche un vasto movimento internazionale e, in Italia, nasce il Movimento di Cooperazione Educativa (tutt’oggi vivo e attivo) a cui si deve un contributo di idee e di materiali di tutto rispetto (anche nella nostra piccola regione): dagli studi alle sperimentazioni in ambito disciplinare (matematico/linguistico/di ricerca ambientale) all’integrazione con le teorie cognitiviste/costruttiviste. Non mi dispiace, inoltre, ricordare il prezioso contributo di Andrea Canevaro, non solo per i riferimenti alla pedagogia istituzionale, ma soprattutto per il significativo apporto offerto nell’ambito dell’elaborazione del pensiero e della ricerca in campo pedagogico, non a caso partendo dalle situazioni di handicap e di diversità/difficoltà.
All’interno del MCE, per continuare il mio rapido excursus, sono stati attivi, per citarne alcuni, veri e propri “maestri” quali Mario Lodi e Bruno Ciari. Riprendo in mano un testo di quest’ultimo datato 1973, dal titolo Le nuove tecniche didattiche, in cui lo stesso Ciari in premessa dichiara apertamente che si tratta di un’opera essenzialmente didattica che “vuole innanzi tutto aiutare i maestri ad affrontare le difficoltà minute, quotidiane, della vita di scuola; un’opera che ha per oggetto, quindi, le tecniche, i procedimenti pratici, il come si insegna, o meglio il come si aiuta il fanciullo a formare le proprie attitudini intellettuali e morali, a conquistarsi una prima organica visione del mondo e determinate abilità strumentali”.(5)
Sfogliando le pagine ci si imbatte nella linguistica, nella matematica, nella valutazione, nella valorizzazione delle conoscenze di ogni singolo alunno. Forse il linguaggio è datato, ma c’è estrema chiarezza sul fatto che gli apprendimenti non sono asettici, devono collocarsi in una dimensione di senso, in una dimensione “etica” in cui il valore della legalità e della democrazia si fonda sulla costruzione di questi concetti attraverso l’operare quotidiano: “E’ assolutamente superfluo dire che la formazione di attitudini e di valori etici non può derivare dal verbalismo predicatorio, dai racconti edificanti, dalle chiacchiere. Le attitudini, i valori etici, in quanto di natura pratica, non possono che nascere da un modo di operare e di vivere”. (6)
Non si tratta, allora, di rispettare le norme in quanto tali, indipendentemente da chi le abbia definite o dal loro valore più o meno formale, ma, ancora citando Ciari, “la norma non deve essere altro che la oggettivazione di una volontà generale già saldamente radicata nelle coscienze. Elaborare piccoli codici in modo più o meno artificioso, quando ad essi non corrispondano leggi interiori, significa fare della falsa educazione per la vetrina, per l’esibizione. Leggi e strutture debbono sorgere dalla coscienza sociale, o non debbono sorgere”.
Una tale visione della legalità favorisce la capacità di discernere, al punto, paradossalmente, di essere in grado di rifiutare/contestare norme palesemente in contrasto con una concezione democratica della vita sociale e, perché no, scolastica.
E veniamo ai giorni nostri, ancora con un quesito: le nostre scuole sono luoghi in cui è possibile disporre di tempi e spazi per imparare, decidere, responsabilizzarsi, vivere una dimensione cooperativa?
Le testimonianze, le esperienze e i contributi presenti in questo numero ci dicono che la voglia di sperimentare e di confrontarsi continua, ancorandosi sulla logica della “pratica didattica”, di certo non in forma asettica o neutrale e, forse, il “fil rouge” che muove le speranze e i desideri è che i nostri alunni possano diventare uomini e donne per tempi di pace.

 

Germano Dionisi
Insegnante di scuola elementare.
Dal 1995 comandato all’IRRE-VDA (già IRRSAE Valle d’Aosta) nel settore della formazione.
In questo ambito ha svolto interventi come consulente, formatore e membro di staff di progettazione,
anche all’interno di iniziative a carattere nazionale.
E’ autore di libri di testo per la scuola elementare nonché di contributi su riviste specialistiche

Note
(1)/(4) Vasquez, A., Oury, F. (1975), L’educazione nel gruppo classe, La pedagogia istituzionale, Ed. Dehoniane, Bologna.
(2) Tardif, J. (1992), Pour un enseignement stratégique, L’apport de la psychologie cognitive, Les Éditions Logiques, Montréal.
(3) Severi, V. (1995), Insegnamento e apprendimento in difficoltà, Ricerca e azione educativa di fronte all’insuccesso scolastico, Utet,Torino.
(5)/(6) Ciari, B.(1973), Le nuove tecniche didattiche, Editori Riuniti, Roma.

 

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