LA TERRA COME TERMOMETRO
FRANE IN MONTAGNA: TERMOMETRO CLIMATICO?
di M. Vagliasindi, E. Cremonese, U. Morra di Cella, P. Pogliotti
Figura 1: installazione della stazione meteorologica sulla parete sud del Piton Central de l’Aiguille du Midi. L’operare in parete, oltre a limitare la mobilità degli operatori nelle diverse fasi, richiede l’individuazione di soluzioni tecniche originali.L’ultimo decennio ha fatto registrare un notevole numero di frane ed eventi di crollo in alta montagna. Molti ricordano, nel 2003, il crollo di un tratto della via di salita al Cervino (la Cheminée), ed in quello stesso anno, chiunque abbia frequentato l’alta quota, ricorderà la grande frequenza delle cadute di massi di dimensioni più o meno grandi. Tali episodi non hanno interessato solo le Alpi ma si sono registrati in tutte le catene montuose del mondo dal Caucaso (2002) all’Alaska (2002). Per ricordare solo i più recenti: la frana della Brenva nel 1997, tristemente famosa, che ha interessato diversi milioni di metri cubi di roccia; il crollo avvenuto nel 2002 dalle Grandes Jorasses, il crollo della Punta Thurwieser (2004), nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, di oltre due milioni di metri cubi, l’imponente collasso della parete ovest dei Drus, nel 2005, che ha cancellato la via Bonatti salita nel 1955, le frane della parete Est del Monte Rosa, in Valle Anzasca, nel 2006 e nel 2007. Tutta questa casistica suona come un campanello di allarme per chi frequenta la montagna e per i ricercatori e desta grande attenzione anche nell’opinione comune. Dal punto di vista emotivo, una frana in alta montagna, soprattutto se di imponenti dimensioni, ha un grande impatto: la montagna, e soprattutto l’alta montagna, appare infatti nell’immaginario collettivo come qualcosa di immobile, cristallizzato, sospesa dalla sua inaccessibilità al di fuori del tempo e del mutare delle cose; allo stesso modo la roccia è vista come elemento solido per antonomasia. Così, in questo ambiente che appare eterno, o che è stato testimone di salite storiche dell’alpinismo, i grandi crolli appaiono spesso, anche con la spinta dei media, come una sorta di sovvertimento dell’ordine naturale delle cose. In realtà la montagna è un ambiente molto dinamico, dove i processi geomorfologici, quelli cioè che modellano le forme della pareti e del paesaggio, sono accelerati dall’energia del rilievo, dai forti contrasti termici e da molti altri elementi naturali. Vero è che le grandi frane, anche in alta quota, non sono certo un’esclusiva del periodo recente: anche in epoca storica sono infatti noti numerosi episodi; ad esempio, per restare nell’ambito della Valle d’Aosta, la grande frana del Triolet, in Val Ferret del 1717, che, staccatasi dall’alto bacino del Ghiacciaio del Triolet, seppellì l’alpeggio di San Joan (che poi venne ricostruito più a valle con il nome di Arp Nouva) o la più recente frana della Brenva del 1921. Ciò che sembra cambiato, almeno ad un primo esame e con i dati disponibili, è la frequenza di questi episodi di crollo. Anche se in realtà, per il passato, la ricerca si scontra spesso con la mancanza di dati e di osservazioni certe: infatti, le frane diventavano oggetto di cronaca solo se provocavano danni o vittime, e l’alta montagna era un ambiente che non destava grande interesse. Tuttavia, tra le grandi frane registrate nelle Figura 2: strumentazione installata nel sito di “controllo” della parete nord in prossimità del Colle di Peuterey. Si riconosce l’unità di acquisizione delle temperature della roccia e lo schermo di protezione per il sensore di temperatura e umidità relativa dell’aria.Alpi negli ultimi secoli (oltre una ventina), quasi tutte sono localizzate in una fascia altimetrica abbastanza elevata, in genere superiore a 2500 m. Un altro dato certo è che il periodo attuale è caratterizzato in generale da un aumento delle temperature (nelle Alpi la temperatura media annua dell’aria è aumentata di 1 °C nell’ultimo secolo) e che questa tendenza è in ulteriore accelerazione (IV Rapporto di Valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC, 2007). In particolare, per quanto riguarda l’alta quota, l’incremento di temperatura si traduce in un innalzamento della quota dello zero termico con un conseguente incremento del numero di giorni in cui la temperatura è superiore allo zero. Infine, nell’analisi delle nicchie di distacco delle grandi frane recenti, si è riscontrata molto spesso la presenza di ghiaccio o di venute d’acqua raramente osservate in precedenza. L’insieme di tutti questi elementi – aumento apparente della frequenza dei crolli, innalzamento termico, presenza di ghiaccio nelle aree di frana – porta a associare i fenomeni gravitativi al riscaldamento climatico. Cerchiamo allora di capire meglio quali fattori intervengono in questi fenomeni. Innanzitutto, in montagna non si ha a che fare semplicemente con la roccia, ma con ammassi rocciosi, un insieme di blocchi rocciosi e di fratture e discontinuità, più o meno estese, che li separano. Queste fratture sono originate da sforzi di tipo tettonico, ossia da quelle stesse spinte che hanno determinato l’innalzamento dei rilievi. Almeno per le rocce di tipo più compatto, come i graniti o gli gneiss, le frane ed i crolli sono determinati dalla presenza di discontinuità o fratture. Se è quindi vero che la roccia, in quanto tale, è un materiale solido, le pareti, essendo interessate da molti sistemi di fratture che costituiscono piani di debolezza, sono caratterizzate da una minore compattezza. Queste fratture tuttavia non sono continue, ma interrotte da ponti di roccia che tengono uniti i vari blocchi tra loro. Inoltre, le fratture possono essere più o meno aperte, ed al loro interno ci possono essere vari materiali: detrito, sabbia o limo, acqua o ghiaccio. Un crollo si verifica quando vengono a cessare le condizioni di stabilità e la resistenza dei ponti di roccia o del materiale che riempie le fratture viene meno. Un altro fattore importantissimo nei fenomeni in alta quota è costituito dal permafrost. È noto come la roccia, in superficie, si riscaldi o si raffreddi a seconda della temperatura dell’aria circostante o della radiazione solare incidente sulla parete. Tuttavia la roccia è un pessimo conduttore del calore, quindi risente delle variazioni esterne solo nello strato superficiale, quello che viene definito strato attivo. Nella parte più interna tende invece a conservare quelle che sono le temperature a cui è – o è stata – sottoposta per più tempo. Il fenomeno per cui un qualsiasi materiale (roccia o terreno), almeno negli strati più profondi, rimane continuamente sotto zero per almeno due anni consecutivi, viene definito permafrost .
Figura 3: riprese termografiche della parete Sud e Nord del Piton Central dell’Aiguille du Midi, in data 05 aprile 2007.La distribuzione del permafrost In montagna è molto complessa, ed è sempre più oggetto di studio proprio perchè a livello scientifico si avverte l’importanza di questo fattore sui fenomeni di stabilità delle pareti e dei versanti: essa dipende infatti da molti fattori, quali la quota, l’orientamento, l’esposizione alla radiazione solare e l’ombreggiamento, che a loro volta dipendono dalla complessità dell’orografia. Molti dei fenomeni di crollo recenti sono avvenuti in una fascia altimetrica in cui la presenza del permafrost è considerata altamente probabile, presenza confermata, in alcuni casi, mediante l’osservazione di ghiaccio in molte nicchie di distacco. È chiaro che il generale riscaldamento del clima si ripercuote sulle condizioni termiche delle rocce o dei versanti, aumentando lo spessore dello strato attivo e variando le proprietà meccaniche e, quindi, la resistenza del materiale. Nei paesi nordici, ad esempio, il permafrost interessa ampie porzioni di terreno, anche pianeggiante, e la sua degradazione, legata ad un progressivo riscaldamento, provoca notevoli problemi per gli edifici e le strutture, soggetti a cedimenti proprio per la variazione delle proprietà meccaniche del materiale non più gelato. Per quanto riguarda gli ammassi rocciosi la situazione è molto complessa. Nella maggior parte dei casi è poco realistico immaginare fratture completamente aperte e riempite da ghiaccio che fa da collante tenendo insieme i blocchi di roccia, in quanto la coesione del ghiaccio stesso in generale sarebbe insufficiente a sostenere il peso. Le modalità per le quali la fusione del ghiaccio interstiziale determina una instabilità degli ammassi rocciosi non sono ancora del tutto conosciute; molto probabilmente intervengono numerosi fenomeni complessi, quali ad esempio l’alterazione dei ponti di roccia a causa dei cicli di gelo e disgelo e della circolazione d’acqua o la variazione delle condizioni di pressione dell’acqua presente nelle fessure. In ogni modo è altamente probabile che vi sia uno stretto legame tra le variazioni del clima e le dinamiche delle pareti rocciose. E poiché gli scenari elaborati da numerosi climatologi di fama mondiale prospettano in generale un ulteriore incremento della temperatura media del pianeta, più sensibile nell’emisfero boreale e nelle aree alpine, è importante cercare di comprendere quali potranno essere gli effetti di queste variazioni sulla stabilità delle pareti ed in generale sull’ambiente d’alta quota. Non si tratta soltanto di considerazioni accademiche: infatti la frequentazione della montagna e la realizzazione di insediamenti o infrastrutture a quote sempre più alte è in notevole aumento e gli effetti delle modificazioni che avvengono in alta montagna hanno forti ripercussioni anche sulle aree a valle. In tale contesto basti pensare alla grande quantità di detrito che si produce in seguito alle frane in alta quota, che può essere preso in carico e trasportato a valle dai torrenti dando luogo ai fenomeni noti come debris flow o colate di detrito, sempre più frequenti. Proprio per cercare di comprendere le relazioni esistenti tra i fenomeni di instabilità e la degradazione del permafrost, nel trienno 2006-2008 si è svolto il progetto “PERMAdataROC”, finanziato nell’ambito del programma Interreg IIIA Alcotra. Il progetto, coordinato dalla Fondazione Montagna Sicura di Courmayeur, con il ruolo di capofila, ha associato il Laboratoire EDYTEM dell’Université de Savoie, l’ARPA Valle d’Aosta e il CNR_IRPI di Torino ed ha avuto quale obiettivo generale la definizione di metodologie di indagine per comprendere ed analizzare le complesse relazioni tra clima e stabilità dei versanti soggetti a permafrost, e di focalizzare su questo tema l’attenzione di ricercatori, Figura 5: distribuzione delle temperature superficiali delle pareti rocciose nel massiccio del Monte Bianco ricavata dalle temperature medie annue acquisite nell’ambito dell’azione PERMA_TEMP.tecnici e gestori del territorio. Proprio per la complessità del tema, il progetto si è articolato in quattro linee di azione. La prima azione – denominata CENSI_CRO, è stata volta a censire ed analizzare i fenomeni di crollo in alta quota, concentrando le indagini sui settori del Monte Bianco e del Cervino. Nel 2007, ad esempio, su entrambi i versanti dell’area del Monte Bianco sono stati registrati 45 eventi di crollo, mentre storicamente sono stati reperiti oltre 300 casi, di cui però solo pochi sono corredati da dati sufficienti per essere trattati statisticamente. Il risultato più interessante dell’azione consiste nella creazione di una rete transfrontaliera di osservazione dei fenomeni, che prevede il coinvolgimento diretto dei professionisti della montagna, primi fra tutti le guide alpine, i gestori dei rifugi, gli alpinisti. Tale rete potrà dare interessanti risultati anche in futuro, suscitando una nuova e più consapevole attenzione alle dinamiche dell’ambiente d’alta quota. Attraverso l’azione PERMA_TEMP, coordinata da ARPA Valle d’Aosta e supportata dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, si è voluto definire, sperimentare e testare, nelle severe condizioni ambientali dell’alta quota, strumenti e metodologie di indagine garantiscano una corretta e duratura acquisizione di dati numerici utilizzabili per la stima dei regimi termici delle pareti rocciose. Approfondire le conoscenze sull’attuale stato termico e sui parametri che regolano il bilancio energetico delle pareti rocciose, risulta indispensabile per: migliorare la comprensione dei meccanismi di innesco dei crolli, individuare le variabili collegano il riscaldamento del versante roccioso alla sua instabilità cale e stimare la distribuzione potenziale del permafrost delle pareti rocciose. Inoltre, come attività a lungo termine, i dataset raccolti saranno indispensabili per la futura calibrazione e validazione di modelli matematici di distribuzione del permafrost a scala regionale o di bacino. Per raggiungere tali obiettivi sono state individuate 5 diverse aree di monitoraggio per un totale di 7 siti di misura, 3 sul versante meridionale del Cervino e 4 nel massiccio del Monte Bianco. La scelta di tali gruppi montuosi quali aree idonee per l’ubicazione delle stazioni di misura è stata operata in relazione alla particolare sensibilità manifestata in occasione dell’anomalia termica dell’estate del 2003 e alla loro significatività in termini di fruizione turistica (alpinismo, escursionismo, ecc.). Morfologicamente i siti di misura sono tutti ubicati su pareti rocciose subverticali collocate ad una quota superiore o prossima ai 3000 metri. Dal punto di vista della dotazione strumentale, i siti di misura possono essere considerati di due categorie: “intensivi” e “di controllo”. Nei siti intensivi oltre alla temperatura dell’ammasso roccioso vengono misurati tutti i parametri necessari per la definizione del bilancio energetico della parete rocciosa. Pertanto sono stati pensati come veri e propri laboratori a cielo aperto da utilizzare per studiare approfonditamente le proprietà e le dinamiche del sistema fisico parete-atmosfera. In totale sono stati allestiti due siti intensivi: uno su territorio Italiano ed uno su territorio Francese. Nel primo caso è stata scelta la zona della Capanna Carrel (lungo la cresta sud-occidentale del Cervino). Nel gruppo del Monte Bianco (versante francese) è stato invece individuato il Piton Central de l’Aiguille du Midi per la sua particolare morfologia (che consente di indagare tutte le esposizioni nel raggio di pochi metri) e poiché facilmente accessibile mediante gli impianti di risalita (figura 1). Per quanto riguarda i siti di controllo in essi vengono misurati solamente la temperatura dell’ammasso roccioso e la temperatura ed umidità relativa dell’aria (figura 2). Essi sono ubicati sulle medesime pareti indagate dall’azione PERMA_CRO e CENSI_CRO, al fine di poter fornire gli elementi necessari per l’interpretazione delle dinamiche in caso di eventi di crollo documentati attraverso le indagini delle suddette azioni. Attualmente sono disponibili 10 serie di temperatura roccia continue con durata pari o superiore all’anno, la più lunga delle quali, della durata di due anni, appartiene al sito installato in prossimità della rinomata Cheminée, interessata dal crollo di una importante porzione di parete nel mese di agosto 2003. Dal punto di vista statistico le serie termometriche attualmente disponibili non consentono ancora analisi significative sull’attuale regime termico degli ammassi rocciosi indagati o per effettuare paragoni tra le diverse stazioni di misura. Tuttavia, per ogni sito, sono stati calcolati alcuni semplici parametri quali:

• temperatura media annua superficiale della parete;

• escursioni termiche superficiali giornaliere;

• gradiente termico: è la variazione di temperatura che si osserva al variare della profondità, solitamente si esprime come °C/m;

• thermal offset: si intende la differenza, in valore assoluto, della temperatura media della roccia alle diverse profondità. Si può definire come un indicatore dell’efficienza del mezzo a trasferire il calore per conduzione; generalmente si considera il valore medio annuale.

Parallelamente alla caratterizzazione del regime termico delle pareti monitorate nel corso del progetto, è stata affrontata la problematica relativa alla spazializzazione delle misure puntuali di temperatura, sia attraverso un approccio strumentale, sia attraverso l’impiego di modelli matematici. Nel primo caso è stata impiegata una termocamera, attrezzatura in grado di rilevare, a distanza, la temperatura degli oggetti osservati, sulla base dell’emissione naturale delle radiazioni che un qualsiasi corpo con una temperatura maggiore allo zero assoluto (-273,14°C) emette nel campo dell’infrarosso. Essendo la radiazione infrarossa direttamente proporzionale alla temperatura superficiale dell’oggetto che si sta osservando, il sistema termografico è in grado di convertire tale valore di radiazione in un valore di temperatura e di rappresentare l’oggetto sotto forma di immagine termica, nella quale i vari livelli di temperatura sono rappresentati da un gradiente di falsi colori. L’applicazione di indagini termografiche all’osservazione delle pareti rocciose ha il principale obbiettivo di ottenere informazioni circa la distribuzione delle temperature superficiali della parete e analizzarne la relativa variabilità spaziale e temporale, oltre a verificare la possibilità operativa di rilevare la temperatura superficiale dell’ammasso tramite misure indirette e remote. Nel corso dell’attività PERMA_TEMP le prime misure termografiche sono state realizzate con una termocamera Flir® Therma-CAM P640 presso i siti settentrionale e meridionale dell’Aiguille du Midi. Nella figura 3 sono illustrate le riprese termografiche delle parete Sud e della parete Nord dell’Aigulle du Midi. Appare evidente (immagini contraddistinte dai numeri 1 e 2) il differente riscaldamento della parete dovuto alla diversa esposizione ma anche la grande eterogeneità spaziale dei valori di temperatura superficiale su entrambe le esposizioni (numeri 3 e 4). Il grafico in figura 4 mostra le relazioni esistenti tra il dato termografico e il dato di temperatura misurato dal sensore in roccia posto a 3 cm di profondità sul versante settentrionale dell’Aiguille du Midi. In generale tale metodologia si è dimostrata di facile e rapida applicazione, parzialmente automatizzabile ed in grado di fornire una misura immediata, spazialmente continua e termicamente confrontabile ai dati puntuali acquisiti dai sensori in roccia. Per quanto concerne l’impiego dei modelli matematici, si è cercato di distribuire i valori di temperatura media annua superficiali delle pareti rocciose (MAGST) acquisite nel massiccio del Monte Bianco ricavando una distribuzione della MAAT (mean annual air temperature) in funzione della quota e della radiazione potenziale nelle onde corte in funzione della topografia dell’area. Operazioni di spazializzazione di questo genere vengono effettuate utilizzando, come base, il modello digitale del terreno che fornisce informazioni relative a quota, esposizione e pendenza di ogni porzione di territorio. Estrapolando i valori dei due parametri di cui sopra, per le zone relative ai punti di misura, è stato possibile valutare le relazioni che intercorrono tra questi ed i valori di temperatura superficiale della roccia. Una volta note, tali relazioni sono state applicate ai modelli digitali ed hanno condotto alla mappa della distribuzione delle temperature superficiali medie annue delle pareti rocciose (figura 5). La terza linea di azione – PERMA_CRO – è stata volta ad analizzare i fenomeni gravitativi attraverso l’applicazione di tecnologie avanzate: infatti se è facile osservare crolli di grandi dimensioni, più difficile, soprattutto in condizioni ambientali particolari, è quantificarli e misurarli. Allo stesso modo è difficile cogliere eventi di crollo di dimensioni più contenute ma che al pari di quelli maggiori possono essere un impartante termometro dell’evoluzione delle pareti. Sono state quindi sperimentate tecnologie ampiamente utilizzate per altre applicazioni ma ancora poco usuali negli ambienti dell’alta montagna: il laser scanner, la fotogrammetria digitale terrestre, la registrazione del rumore sismico. Grazie al laser scanner, ad esempio, è stata monitorata e ricostruita l’evoluzione della parete dei Drus dal 2005 al 2007, rilevando 8 crolli di varie dimensioni. Un sistema di geofoni per il rilevamento del rumore sismico generato da crolli è stato installato nei pressi della Capanna Carrel sul Cervino. Per l’impiego di tali tecniche di indagine ci si è spesso dovuti confrontare con difficoltà logistiche importanti legate alle particolari condizioni di esecuzione dei rilievi e alle limitazioni imposte dalla severità degli ambienti nei quali ci si è trovati ad operare. I risultati conseguiti durante la realizzazione delle diverse azioni del progetto PERMAdataROC e a conclusione dello stesso sono stati oggetto di numerose presentazioni in convegni scientifici e in momenti di divulgazione al grande pubblico. A seguito del seminario conclusivo tenutosi a Villa Cameron (Courmayeur) nel maggio 2008 gli esiti delle ricerche, il materiale relativo alla comunicazione, ecc. sono stati resi disponibili sul sito del capo fila (www.fondms.org). Inoltre, alcuni aspetti delle attività svolte (metodologie, prime risultanze, ecc.), costituiscono specifici contributi che saranno presentati alla Ninth International Conference on Permafrost (NICOP 2008) prevista dal 30 giugno al 3 luglio 2008 a Fairbanks, Alaska (www.nicop.org).
   
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