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Altre scritture

L’aggettivo “altre” premesso all’argomento (le scritture) di questo numero della rivista non è neutro né metodologicamente irrilevante. Se, infatti, risulta abbastanza chiaro il limite esterno dell’insieme individuato (i caratteri congiunti dell’utilizzo del canale grafico-simbolico da un lato, della rappresentazione del codice linguistico verbale dall’altro, distinguono, infatti, chiaramente la scrittura da ciò che scrittura non è), una riflessione più fine si impone quando si cerchi di definire i limiti di questa alterità “verso l’interno”, ovvero in rapporto a un nucleo di scrittura che sicuramente possa essere definita come “non-altra”.
C’è in proposito da domandarsi se l’idea di una “convenzionalità” o di una “canonicità” (cioè di una “normalità”) della scrittura abbia un senso; se questo senso sia (e quanto lo sia) condiviso; se, infine, l’applicazione al corpus tipologico delle attività scritturali dei criteri distintivi che possono discendere da questo senso condiviso generi insiemi costanti nella loro estensione (S = {a; b; c; ...; n}; l’insieme S delle scritture convenzionali contiene i tipi di scrittura a, b, c, ..., n) e rappresentabili nella loro intensione (x ∈ S ∥ x = crn; un tipo di scrittura x appartiene all’insieme delle scritture convenzionali S, in modo tale che x soddisfi un numero n di criteri).
Abbastanza scettici rispetto alle probabilità di soluzione certa e inequivocabile per un’equazione che si basi sull’individuazione dei criteri che normalmente vengono chiamati in causa per individuare i tratti specifici della scrittura, sia in rapporto alle altre forme di comunicazione verbale sia al fine di qualificare le varie forme di realizzazione dell’espressione scritta, e sulla loro applicazione all’insieme delle tipologie scritturali per determinare il “centro” e la “periferia” di questo sistema, ci limiteremo (con intento problematizzante) a prenderne in esame due gruppi riferibili, il primo a caratteri fenomenologici, il secondo a caratteri sostanziali dell’universo “scrittura”.

Un importante carattere evenemenziale della scrittura pare essere quello della sua “persistenza” in rapporto alla dimensione orale: la parola detta è volatile, si consuma nel tempo della sua enunciazione, mentre lo scritto è fatto per durare, per essere riletto e riconsiderato. La differenza del supporto fisico destinato alla conservazione determinerebbe quindi una prima differenza fra le forme della scrittura: fra il graffito o l’iscrizione muraria, la pagina di libro o di quotidiano o quella di un diario personale, il messaggio elettronico in forma di e-mail o di SMS, esisterebbe una gradazione di persistenza che qualificherebbe le prime come “più scritture” delle seconde e le seconde come “più scritture” delle terze. La controintuitività di questa affermazione è dovuta al fatto che accanto alla natura fisica del supporto, nel quadro più generale della persistenza dell’informazione scritta vanno anche considerate le modalità culturali di circolazione e di riutilizzazione, per cui l’iscrizione murale, per quanto potenzialmente più durevole, è anche quella che possiede minor capacità di ricircolo; mentre la pagina di carta è, nella nostra cultura, lo strumento principe di questa disseminazione dei contenuti affidati alla scrittura; e lo spazio elettronico, d’altro canto, si muove con regole ancora incerte di governance della persistenza, che vanno dal minimo degli SMS, destinati all’immediata cancellazione, al massimo dell’illimitata riproducibilità dei contenuti web, passando per forme intermedie di durevolezza e ricircolo come le e-mail, le chat-lines, i blog e i forum. L’avanzamento nella definizione di queste regole, che dovranno comprendere aspetti non secondari di etica della comunicazione, di verificabilità e falsificabilità dei contenuti elettronici e della loro proprietà e responsabilità intellettuale, ci dirà se e quanto sarà ancora possibile nel prossimo futuro conferire alla parola scritta quel carattere di sacralità (“verba volant, scripta manent”) così radicato nella nostra tradizione culturale.
Il secondo carattere su cui attiriamo l’attenzione, che prende in esame aspetti inerenti la struttura stessa della lingua scritta, è quello dell’assenza del destinatario nel momento dell’enunciazione, con le importanti conseguenze di tipo testuale derivanti dalla mancanza di feedback immediato, quali la necessità di supplire alla mancanza degli strumenti paralinguistici propri del parlato (espressioni del viso e gestualità) e di utilizzare una più raffinata strumentazione linguistico-deittica (quella necessaria ad indicare il “qui ed ora” della comunicazione, che nella scrittura avviene su piani cronologici differiti); o quale l’assunzione integrale, da parte di chi scrive, del compito di risolvere all’origine (nell’impossibilità di riprogettare e reindirizzare in corso d’opera la propria attività comunicativa con la collaborazione dell’interlocutore) ogni eventuale fenomeno di mancata comprensione o fraintendimento, conferendo al codice scritto “centrale” i tratti (apparentemente consustanziali alla sua natura) di autosufficienza comunicativa e di compiutezza semantica.

Anche in questo caso, esistono da un lato manifestazioni scrittorie che denunciano chiaramente la loro “perifericità” rispetto al sistema proprio attraverso la scelta di strategie comunicative che riproducono la mancanza di macroprogettazione dell’interazione parlata, servendosi anche di strumenti espressivi accessori (si pensi agli emoticons della scrittura elettronica) che liberano lo scrivente dell’obbligo di rappresentare sotto forma esclusivamente linguistica lo spazio delle proprie emozioni e dei propri umori. Il carattere centrale normalmente attribuito ad altri contesti scrittori, d’altro canto, può venir messo in crisi dalle considerazioni relative all’autosufficienza e alla compiutezza: nessuno potrà negare che forme letterarie (e cosa è più “centrale”, nella nostra tradizione, della letteratura?) come quella poetica, in cui un’importanza determinante, rispetto alla riuscita comunicativa, è affidato allo spazio interpretativo (quindi semantico) del lettore, quanto mai incerto, o come quella teatrale, la cui autosufficienza è relativa alla capacità di chi legge di trasportare nello spazio scenico azioni comunicative fatte per essere affidate alla dimensione fisica della voce e dell’azione e non allo spazio eminentemente mentale della scrittura, assumono in questa prospettiva una valenza a dir poco ambigua, rispetto a una concezione semplificata che associ il valore della convenzionalità a quello della sedimentazione all’interno di una tradizione. La poesia e il teatro, ma più in generale gran parte della scrittura praticata con fini espressivi (cioè, in una parola, la letteratura), vivono nutrendosi di piccoli o grandi “scarti” linguistici e scommettendo costantemente sulla possibilità di forzare la convenzione linguistica ad andare oltre il suo significato referenziale e a venire nondimeno compresa.
Se vista in una prospettiva scolastica, l’idea della convenzionalità della scrittura è poco più di una tautologia: è scrittura convenzionale ciò che rientra nell’insieme delle scritture insegnate a scuola, che sono appunto convenzionali; una tautologia che peraltro (nella misura in cui si riferisce appunto a una convenzione, cioè a un quadro di riferimento che è valido per coloro che lo condividono) è del tutto sufficiente a funzionare come strumento (provvisorio) di lavoro. Resta tuttavia l’obbligo di distinguere chiaramente i piani e di non assumere, ad esempio, la scrittura letteraria come paradigma di una normalità che, fortunatamente, la letteratura non si è mai sognata di perseguire come proprio fine; pena una deplorevole confusione e, cosa altrettanto importante, la svalutazione della tensione implicitamente anticonvenzionale che la scrittura letteraria porta dentro sé.

Gianmario Raimondi
Docente universitario - Università della Valle d'Aosta

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