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Caleidoscopio

“Conosciamo la paura quando il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici, come ad esempio quelli delle gambe, rendendo così più facile la fuga, mentre il volto, momentaneamente meno irrorato, impallidisce”.
U. Galimberti, L’ospite inquietante

Una voce dall’esperienza

Quando si affronta il tema della paura a scuola, il pensiero corre immediatamente agli studenti, alle loro ansie legate alle prove di verifica, al loro sempre più difficile e complesso rapporto con il mondo degli adulti, alle loro tensioni con i compagni, che sempre più spesso sfociano in fenomeni di bullismo.
Sarebbe però da ingenui pensare che la paura, universalmente considerata una delle emozioni fondamentali dell’uomo, non intersechi, non sfiori, non faccia parte anche del lavoro dell’insegnante, attività alquanto complessa perché si declina su piani differenti di relazione: quella tra i pari, quella con i superiori, quella con il personale non docente e, non ultima per importanza, quella con gli studenti.
Certo a scuola, noi insegnanti non possiamo dare alla paura risposte comportamentali di tipo innato, quali paralizzarsi, fuggire o lottare, cosa che avviene nello stato di natura e che, nei nostri allievi, si concretizza in ripetute richieste di uscire dall’aula, in frequenti assenze, in manifesti atteggiamenti di ribellione o di disagio. L’esperienza insegna che, per questa particolare categoria di adulti/educatori, è proprio questo il punto nodale riguardo all’argomento paura: quali che siano le cause di questa emozione negativa, ansia da prestazione, frustrazione per i risultati disattesi, timore di parlare in pubblico, insicurezza per non sentirsi all’altezza della situazione, solo per citarne qualcuna, in questo momento storico si richiede ai docenti una reazione sempre crescente a livello di padronanza di sé e di forte autocontrollo. Ne consegue un eccessivo carico emotivo in quanto, oltre a vivere le emozioni negative, a riconoscerle e dare loro una risposta immediata e positiva per sé e per i propri alunni, attività già difficile, al docente si impone anche lo sforzo di non cristallizzare le proprie negatività: egli deve attivare energie per ricominciare ogni volta che è necessario sapendo che ciò è il fondamento dell’azione educativa.
Una delle paure più grandi che un insegnante può avere, soprattutto dopo parecchi anni di lavoro, quando sono state superate tutte le ansie degli inizi, pare consista proprio nel temere di non riuscire a fronteggiare quella che alcuni studiosi chiamano la “paura appresa”, un’emozione più complessa di quella fondamentale, perché si ha la consapevolezza di dover essere in grado di affiancarle dei corretti comportamenti di autocontrollo e di responsabilità personale.
Dominare i propri sentimenti impulsivi e le proprie emozioni angosciose, restare composti, positivi e imperturbabili anche nei momenti difficili, pensare in modo chiaro, mantenere la concentrazione anche sotto pressione, sono soltanto alcune delle reazioni richieste agli insegnanti di fronte alla loro “paura appresa”. Avviene però che in momenti di forte stress emotivo, di stanchezza, di lutto, di malattia, di delusione, di separazione, ma anche durante momenti di “pensiero laterale”, quando si è portati ad essere un po’ meno fiscali, meno rigidi, ma sempre recettivi nel cogliere tutte le sfumature e le suggestioni che derivano dai molteplici aspetti di questa attività lavorativa, si può sentire in profondità il peso del non sentirsi adeguati, non pronti ad affrontare l’avventura educativa che ogni giorno si rinnova in quel microcosmo che è l’aula scolastica.

La paura nei nuovi colleghi

Quando penso al mio futuro professionale di insegnante, non riesco a trovare molti punti fermi sui quali strutturare le mie strategie, perché la società oggi cambia le regole in modo repentino e quello che sembrava certo un anno fa oggi non lo è più. Il percorso di formazione che dà accesso all’insegnamento è quindi soggetto a continue correzioni di rotta che non sempre sono compatibili con le possibilità personali, oltre a non garantire una certezza di occupazione. Spesso mi chiedo se, una volta tornata, l’insegnante che sto sostituendo sarà contenta del lavoro che ho svolto, di come l’ho impostato, degli argomenti trattati, delle prove proposte, della valutazioni date, del rapporto che si è creato con gli alunni, della compilazione del registro. Mi domando continuamente se ho dimenticato qualcosa, se ho dato importanza agli argomenti giusti, se…” .
Questa è la paura di una supplente alla sua prima esperienza. Una supplente alle prese con due classi di seconda media (chiamiamola ancora così per semplificare) piuttosto difficili, come solo possono essere difficili i ragazzi di questa età. Dodicenni che farebbero perdere la pazienza anche ad un santo. Ed ecco che si affaccia lo spettro di un’altra paura: quella di non riuscire a trattenere le mie mani e la mia bocca di fronte all’ennesima risposta insolente di uno di questi ragazzini. Perchè ricordo che, quando andavo a scuola io, se un insegnante ci diceva di stare zitti, così era, non si poteva replicare, non avrebbe avuto senso. Il problema è che dalla mia seconda media sono solo passati tredici anni. Com’è possibile che sia cambiato tutto? Questi ragazzi non riescono più ad ascoltare, a concentrarsi, a capire. Ho paura che i miei discorsi moralizzatori cadano nel vuoto, anzi, sono sicura che così succede. Nonostante ciò ripeto migliaia di volte, sperando che in un momento di disattenzione dai loro pensieri il loro orecchio capti ciò che dico loro: che lo studio è importante per il loro futuro perché senza istruzione non avranno un futuro. Un futuro sicuro non lo abbiamo nemmeno noi laureati, figuriamoci chi smette di studiare.
La paura del confronto con gli altri insegnanti, poi, è sempre presente, anche se è minore rispetto all’inizio dell’anno. Loro ormai a questa professione sono avvezzi; io, invece, ancora non so bene dove andare a parare. Ma dal confronto nascono le ricchezze e, infatti, sento di poter dire che ho imparato molto di più grazie ai consigli dei miei colleghi che leggendo manuali sugli adolescenti o comparando mille grammatiche.
A volte, è divertente notare quanto siano differenti le nostre paure: i colleghi più anziani parlano di pensione (si potrà? non si potrà?) e noi più giovani ci preoccupiamo di capire quale strategia migliore adottare per spiegare il predicato nominale... Sono sicura che, all’inizio della carriera, anche loro provavano la nostra stessa inadeguatezza, così come sono certa che tra qualche decennio anch’io inizierò a pensare alla pensione.
Alla fine c’è, non posso nasconderlo, la paura di non avere un’altra volta la fortuna della supplenza annuale: un po’ per colpa mia che (per motivi di forza maggiore) non ho ancora iniziato la SSIS, un po’ perché la costante è l’incertezza.
A chiusura, e per sdrammatizzare, comunico che se la mia paura fosse un quadro, non sarebbe di certo l’Urlo terrorizzato di Edvard Munch, ma piuttosto il sorriso inquieto e indecifrabile della Gioconda di Leonardo da Vinci.

Caleidoscopio di paure
Le paure di chi lavora da parecchi anni nella scuola

Paura di essere inadeguato
di far sparire la curiosità
di togliere la voglia di ridere a scuola
di perdere per strada chi, pur essendo dotato, non ha i caratteri del bravo alunno tradizionale
di riconoscere razzismo, sciovinismo e antisemitismo in qualche alunno, malgrado le mie lezioni di storia ed educazione civica
di essere inadeguata verso disabili o stranieri
(buona volontà sì, preparazione specifica no)
di essere troppo severa o troppo comprensiva
(qual è la giusta misura?)
Paura di non riuscire
a scorgere l’interessante personalità che c’è anche dietro a chi non rispetta le regole
a trasmettere l’amore per la lettura e il gusto della scrittura
a impiegare in modo costruttivo le proprie energie

Paura di aver sempre meno voglia
di tornare a scuola dopo le vacanze
di mettersi in gioco
di sperimentare

Paura di non essere più motivato
perché non si crede più in ciò che si sta facendo
Paura di veder screditato sempre più il ruolo del docente
Paura di ricevere in continuazione richieste assurde, nuove leggi, codicilli, norme (da chi ha in mente una scuola ideale, mentre noi lottiamo nella scuola reale).

Suggestioni

Se la sensazione condivisa è quella di un correre senza meta, di vedersi sfuggire dalle mani il senso profondo delle cose, di non cogliere più i motivi del nostro andare, di vivere sempre nell’attesa di risposte esterne, forse educare all’emotività può essere il punto di partenza.
Fermarsi per fermare, ascoltarsi per ascoltare, perché, come dice Aldo Carotenuto: “i rapporti dovrebbero in primo luogo aiutarci a manifestare e trasformare la nostra personalità, ad esprimerci al meglio per trovare in noi stessi la strada giusta per svettare.

A.M. Della Valle, A.M. Distasi, R.A. Domeneghini, E. Pagano, E. Roullet, E. Viberti

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