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L'autonomia scolastica oltre confine*

Anche nei paesi a più forte spinta decentralizzatrice sono i Governi a dettare linee di condotta univoche in merito a conoscenze e competenze da acquisire. Alle istituzioni scolastiche il compito di trovare strumenti, metodologie e strategie efficaci perché anche gli studenti più disagiati possano raggiungere i risultati attesi.

Suggerire, consigliare. Sono due tra le definizioni che un qualsiasi dizionario della lingua italiana propone alla voce indicare. Ma anche mostrare, rendere noto, precisare. Le recenti Indicazioni Nazionali firmate Fioroni sono da intendersi come suggerimenti e consigli o piuttosto come norme prescrittive per tutte le scuole della Repubblica? Il documento preparatorio Curricolo nella scuola dell'autonomia chiarisce che “le Indicazioni nazionali costituiscono il quadro di riferimento delle scelte affidate alla progettazione delle scuole”. Un po' tutte e due le cose, dunque: norma, ma anche opera creativa da inserire in una tela e in una cornice che le diano dei confini. Del resto, non poteva che essere così.
L'autonomia scolastica è una realtà consolidata, anche se in molte istituzioni scolastiche vola molto basso a causa dell'esiguità delle somme stanziabili, e l'epoca dei programmi ministeriali da applicare con rigidità e senza alcuna possibilità di intervento da parte dei docenti è superata ormai del tutto. Resta una presenza ministeriale centralizzata discreta che detta liste di saperi e di competenze ineludibili per fare in modo che tutte le scuole d'Italia parlino la stessa lingua, nel rispetto dell'autonomia interpretativa di ogni singolo istituto, e per evitare che in certe regioni del paese, in cui le spinte autonomistiche locali cadono talora nell'eccesso, possano attecchire discipline e pratiche didattiche in contrasto con la madre di tutte le leggi, la Costituzione della Repubblica Italiana. Così in Italia. E negli altri paesi dell'Unione Europea o appartenenti all'OCSE? Come funziona, in questo ambito, il delicato rapporto tra governi centrali e singole scuole?

Il sistema degli stati federali

Il convegno su Istruzione e politiche locali, tenutosi a Poitiers nel giugno del 2005, ha messo in evidenza quattro diversi approcci: il primo, privilegiato da Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia e la Germania, mantiene anche a livello scolastico una struttura di tipo federalista, nella quale gli organi di governo locale assumono pieni poteri in materia di istruzione. Tuttavia, è stato osservato che negli ultimi anni anche nei Paesi a forte e antica struttura federale, è sorta l'esigenza di mettere a punto standard minimi ed esami a livello nazionale, allo scopo evidente di omogeneizzare saperi e competenze. In Germania, ad esempio, l'Ente che coordina i singoli Länder è la Ständige Konferenz der Kulturminister der Länder in der Bundesrepublik Deutschlands (Conferenza permanente dei ministri dell'Educazione e degli Affari Culturali dei Länder nella Repubblica Federale di Germania), il cui obiettivo principale è quello di far convergere i ministri dei vari Länder su posizioni comuni. Poiché, dunque, lo stato federale collabora con le regioni, è stato creato un ulteriore organismo, la Bund-Länder-Commission für Bildungsplanum und Forschungsförderung (Commissione nazionale per la pianificazione dell'istruzione e della ricerca), sorta di organo transregionale permanente che tra i suoi molteplici compiti ha quello di concepire e seguire lungo le fasi del percorso, progetti-pilota da realizzare in tutto il Paese allo scopo di favorire una sempre maggiore efficacia degli interventi didattico-metodologici.

Francia capofila del centralismo

Il secondo tipo di approccio analizzato al convegno di Poitiers è di tipo fortemente centralistico. È adottato da una ventina di Paesi OCSE, tra i quali la Francia, il Lussemburgo, la Corea e il Giappone. Qui le collettività locali intervengono soprattutto a livello di finanziamenti per edilizia, strumenti didattici, libri di testo e assegni per le famiglie in difficoltà. Per quanto riguarda, al contrario, le indicazioni inerenti programmi, contenuti e obiettivi d'apprendimento, sono i Governi centrali che le dettano in massima parte.
In Francia, definire e attuare la politica educativa è competenza del Governo entro i confini definiti dal Parlamento che detta i principi generali ai quali uniformarsi.
Ne è responsabile diretto il Ministro della Pubblica Istruzione, dell'Insegnamento Universitario e della Ricerca. Proprio l'anno scorso, con decreto dell'11 luglio 2006, il governo francese ha varato il cosiddetto socle commun de connaissances et de compétences, la lista delle conoscenze e competenze basilari da fare acquisire a tutti gli studenti. Si tratta di una serie di indicazioni stilate in modo dettagliato da una Commissione composta da esperti pedagogisti - ma anche da presidi, docenti e genitori - che ha lavorato per oltre un anno sul terreno coinvolgendo centinaia di scuole e migliaia di studenti, professori e famiglie in tutto il territorio della Repubblica, in modo che il documento finale fosse il più ampiamente possibile condiviso. Lo “zoccolo” comune di conoscenze e competenze, definito ufficialmente “cemento della Nazione”, prevede che tutti gli allievi siano condotti a raggiungere sette macro-competenze: la padronanza della lingua francese, la pratica di una lingua straniera, i principali elementi di matematica e cultura scientifica, la padronanza delle comuni tecnologie dell'informazione e della comunicazione, la cultura umanistica, la cittadinanza attiva, l'autonomia e l'iniziativa. Ciascuna di queste grandi aree è suddivisa in connaissances, capacités, attitudes (sapere, saper fare, saper essere), a loro volta segmentate in singoli obiettivi enunciati in modo chiaro e da tutti immediatamente comprensibili. Un modello fortemente centralizzato, dunque, in cui lo Stato - come si può leggere anche sul sito del Ministero dell'Educazione nazionale - si riconosce “il compito di definire i percorsi formativi, di fissare i programmi nazionali, di determinare l'organizzazione e il contenuto dei vari insegnamenti”, nonché di “controllare e valutare le politiche educative locali al fine di assicurare la coerenza d'insieme del sistema educativo”.

Al nord prevale la collaborazione

La terza modalità relazionale tra governo centrale, amministrazioni locali e istituzioni scolastiche è quella definita collaborativa, in cui si gode di certi importanti privilegi a livello locale - possibilità di assumere i docenti nel quadro di un regolamento nazionale e di modificare una parte dei programmi di insegnamenti - pur nel rispetto di precise indicazioni nazionali. Di questa categoria fanno parte molti Paesi del nord e dell'est europeo come la Polonia, la Danimarca, la Norvegia e l'Islanda.
In Danimarca, giusto per fare un esempio, gli insegnanti sono formalmente assunti dalle autorità locali o dal preside con contratti molto flessibili. Di contro, è il Ministero dell'Educazione che stabilisce gli obiettivi generali del curriculum e le discipline opzionali a disposizione degli studenti, che possono così ritagliarsi percorsi di studio su misura. Sono state definite, a livello centrale, dieci grandi competenze, a partire dal rapporto DeSeCo (Definizione e selezione delle competenze-chiave) dell'OCSE: competenze sociali, alfabetiche funzionali, di apprendimento, comunicazione, autogestione, di vita democratica, ecologica, culturale. Chiudono la lista, ma non ultime per importanza, le competenze in salute, sport ed educazione fisica e quelle legate alla capacità di creare e innovare. Definite “competenze-pivot”, sono considerate il prerequisito indispensabile per l'acquisizione delle successive competenze professionali. Come dicevamo, il ministero fissa poi gli obiettivi per ogni ordine e grado di scuola che i Consigli pedagogici delle singole scuole provvederanno a far raggiungere ai propri studenti attraverso sussidi, strumenti e percorsi didattici liberamente scelti.
Anche in Norvegia, sono Parlamento e Governo ad avere la responsabilità di fissare gli obiettivi nazionali di apprendimento: il Ministero per l'Istruzione e la Ricerca garantisce poi, attraverso l'introduzione di un curriculum nazionale, che siano raggiunti gli standard educativi previsti dal Governo.

Inghilterra, più “potere” alle scuole

Infine, il quarto approccio è quello che viene denominato decentramento volontario ed è messo in pratica in Paesi come l'Inghilterra, l'Ungheria o la Nuova Zelanda, in cui si è optato per una delega massiccia alle autorità locali, sia per la gestione del personale che per i programmi. Per quanto riguarda il primo dei due aspetti, in Inghilterra l'assunzione del personale docente e non docente non è soggetta a concorsi nazionali per esami e titoli come in Italia, ma avviene per candidatura diretta. Le scuole pubblicano di anno in anno l'elenco dei posti disponibili e i docenti candidati vengono selezionati a seguito di un colloquio con i rappresentanti dei Board of Governors (Consigli di Amministrazione). Anche il licenziamento è altrettanto diretto: se un docente non risponde alle richieste della scuola, l'anno successivo non avrà rinnovato il contratto. Il termine Autonomia in Inghilterra vanta già una lunga vita: vent'anni nel 2008. La riforma ha spostato la responsabilità gestionale e finanziaria dalle LEA (Local Education Authorities) alle scuole: se prima la quasi totalità dei finanziamenti pubblici andava alle agenzie territoriali, dal 1988 in poi la stessa percentuale è stata iscritta nei bilanci delle scuole. Ovviamente ogni autonomia economica che si rispetti non può prescindere dalla presenza di organi decisionali ugualmente autonomi e forti. Ecco perché oggi in Inghilterra il capo d'istituto e il Consiglio di Amministrazione assumono un ruolo determinante, non solo per una corretta gestione dell'istituto ma anche per il mantenimento di standard elevati del rendimento scolastico.
A questo proposito, occorre precisare che nel 2000 è entrata in vigore una nuova versione del National Curriculum, soggetto a un controllo ripartito tra Stato, autorità educative locali e istituti scolastici. Tutte le scuole devono offrire un curriculum ampio ed equilibrato e svilupparlo a loro discrezione, in base alle proprie esigenze. La quantità di tempo da destinare a ciascuna materia curriculare non è prescritta e non ci sono raccomandazioni generali definite a livello centrale sui metodi di insegnamento né sui materiali didattici.

Conclusioni

Abbiamo potuto constatare come un evidente filo rosso attraversi tutti i Paesi qui analizzati: con maggiori o minori “ingerenze”, con decisionismo marcato o con più sobria discrezione, tutti i Governi centrali intervengono - soprattutto a livello didattico - a dettare liste di conoscenze, competenze, abilità. Alle singole scuole è demandato il compito di progettare i percorsi più idonei in termini di efficienza ed efficacia per garantire agli studenti il raggiungimento almeno degli obiettivi minimi fissati in sede di programmazione. Bene, nulla da eccepire, è corretto che per evitare scompensi formativi tra le aree di uno stesso Paese il Governo centrale intervenga per garantire uguali livelli di istruzione e, di conseguenza, pari opportunità ai fini dell'inserimento dei giovani sul mercato del lavoro. I problemi arrivano - come ricordato all'inizio - quando ad un'autonomia dichiarata sulla carta, le scuole non possono far seguire un'autonomia reale e praticata perché le casse sono vuote. Non tutti i Governi, infatti, hanno la lungimiranza di investire nella Scuola. Addirittura, i meno avvertiti individuano l'Istruzione quale primo terreno privilegiato per tagli ed economie. Occorre in prima istanza, nei Paesi in cui la Scuola (pubblica) è percepita come una palla al piede per l'economia, che un grande sussulto di dignità scuota i docenti - ma anche gli studenti e le loro famiglie - veri attori di un'autonomia che, senza investimenti significativi, non sarà mai destinata a egregie cose.

Gabriele Ferrante

 

Nota
(*) Il presente articolo è stato pubblicato da Scuolainsieme sul n.1, ott.-nov. 2007.

 

 

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