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La libertà di decidere

L'autonomia “consente, ma non obbliga”. L'uso consapevole e mirato degli spazi di decisionalità e di flessibilità possono contribuire ad un reale miglioramento dell'attività didattica.

Su questa stessa rivista, tempo fa, scrivevo di scuola come comunità di ricerca(1): di esperienze eccellenti, ma circoscritte e di modalità per trasformarle in patrimonio comune; delle dimensioni di sviluppo e di diffusione che, solo se pensate e realizzate insieme, possono produrre reali processi di innovazione di sistema.
Scrivevo anche di ragioni ineludibili per sviluppare la capacità di imparare ad imparare da parte del sistema scuola e di strategie possibili per sostenerne processi di innovazione e miglioramento.
Scrivevo di apprendimento e di ricerca, come processi analoghi di sviluppo di saperi, e della dimensione sociale e cooperativa di entrambe; di insegnanti ricercatori, di scuole come laboratori dell'innovazione, di forme di promozione e sostegno alla professionalità docente, anche e soprattutto nelle sue dimensioni quotidiane e pragmatiche.
Essenzialmente in quell'articolo la riflessione riguardava il miglioramento dell'azione educativa e didattica secondo un approccio largamente teorizzato, ma ancora poco esplorato concretamente, anche per le intrinseche difficoltà culturali, prima ancora che operative, che esso comporta.
Il focus era la comunità scolastica nel suo complesso, la prospettiva quella della mission di supporto ed accompagnamento ai processi innovativi e migliorativi in campo educativo, caratteristica dell'IRRE.
Riprendo qui il discorso dove l'ho lasciato spostando però l'attenzione sulla dimensione di scuola e, dunque, sull'autonomia scolastica, il cui esercizio non può prescindere dalla dimensione didattica, che costituisce il primo fattore di qualità dell'offerta formativa.

Gli strumenti per il cambiamento

È da persona di scuola, prima ancora che da direttore dell'IRRE-VDA, che ho apprezzato e condiviso un breve paragrafo del primo atto di indirizzo per l'attività dell'istituto, emanato nel 2002: “L'autonomia scolastica costituisce la leva istituzionale ed organizzativa su cui puntare per il miglioramento del sistema scolastico regionale in quanto garantisce da una parte l'assunzione delle necessarie responsabilità da parte dei diversi operatori scolastici e dall'altra favorisce i rapporti fra le scuole ed i diversi Enti presenti sul territorio. L'innalzamento del successo formativo è il risultato di una qualificazione dell'offerta formativa delle scuole, in quanto gli esiti degli apprendimenti sono strettamente dipendenti dal miglioramento dei processi d'insegnamento”. [Dir. Ass. 2002].
Questa indicazione (peraltro conservata, con minime riformulazioni, in tutte le direttive successive) evocava, dell'autonomia scolastica, la natura istituzionale di grande riforma, che ha cambiato sostanzialmente il quadro giuridico di riferimento e le maggiori responsabilità individuali e collettive che ne derivano.
Ma soprattutto portava in primo piano, ed in stretta connessione, il miglioramento dell'offerta formativa sul territorio come scopo primario di tale intervento normativo e la centralità dell'azione educativa e didattica nella qualificazione del servizio di istruzione.
Può sembrare scontato dire che, senza un buon insegnamento, difficilmente ci potranno essere buoni risultati di apprendimento. Non sono affatto scontati, invece, né il fatto che un intervento legislativo di questo tipo possa effettivamente influire sulla qualità della didattica né il modo in cui ciò possa avvenire.
A qualche anno di distanza, invero non molti per una riforma di tale portata, l'impressione è che dell'autonomia si pratichino più diffusamente le dimensioni amministrative e organizzative percepite, in alcuni casi, più come appesantimento che come dispositivi di miglioramento.
D'altronde essa consente, ma non obbliga: ovvero, in regime di autonomia le scuole possono funzionare esattamente come prima.
È proprio l'uso consapevole e mirato degli spazi di decisionalità e di flessibilità insiti nell'autonomia scolastica che può contribuire ad un reale miglioramento, su due livelli: l'uno, rispetto al quale credo che le scuole abbiano fatto, in questi pochi anni, grandi passi avanti, più legato al contesto organizzativo, al raccordo con il territorio, all'offerta di servizi aggiuntivi e opzionali, l'altro, più delicato e difficile da praticare, legato direttamente al miglioramento della didattica.

Le risorse per il cambiamento

Un primo aspetto importante è la connessione a monte tra i due livelli: il potenziale migliorativo delle scelte di carattere organizzativo/gestionale sta nell'utilizzarle come strumenti per adeguare il contesto ad esigenze formative specifiche per assicurare condizioni favorevoli a pratiche didattiche più efficaci, ma anche per facilitare e promuovere la diffusione tra i docenti delle competenze professionali necessarie per realizzarle.
Proprio perché l'autonomia consente, ma non obbliga, lo sviluppo concreto delle sue potenzialità va di pari passo con una cultura diffusa dell'innovazione, in quanto fattore di miglioramento delle pratiche professionali.
La questione si gioca nella correlazione tra l'Autonomia didattica e l'Autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, nell'esplorare la seconda come funzionale alla prima, nel trovare modi per sviluppare e condividere saperi e competenze professionali, in quanto strumenti per risolvere i problemi quotidiani di didattica, di gestione della classe, di relazione educativa.
In questo senso, può essere utile ragionare in termini di organizzazione di un contesto di lavoro formativo.
Questo può significare, ad esempio, vedere sotto una luce diversa alcune articolazioni collegiali (penso in particolare a commissioni, gruppi disciplinari, gruppi di plesso, consigli di classe), progettandone il lavoro, almeno in parte, come un percorso di carattere formativo ed elaborativo comune, agganciando a questi luoghi di collegialità istituzionale proposte di ricerca-form-azione, di riflessione metodologica, di sviluppo, valorizzazione e mutualizzazione di materiali e strumenti.
Credo che molte vie siano percorribili: è però fondamentale che l'innovazione sia interpretata e proposta come una risorsa che può contribuire a facilitare e rendere più efficace il lavoro in classe e non come qualcosa a latere che, nella maggior parte dei casi, rischia di essere vissuta come ulteriore aggravio o, pretestuosamente, come un'intrusione limitativa della libertà di insegnamento.
Un buon punto di partenza può essere l'individuazione di esigenze di miglioramento largamente percepite e riconosciute come importanti, in termini di idee innovative o di problematiche da risolvere: questo si può fare all'interno dell'Istituzione scolastica, meglio che in qualunque altro luogo.
Altrettanto utili sono lo scambio e l'interazione con altri insegnanti e realtà territoriali cui possono contribuire forme di cooperazione tra istituzioni scolastiche anche nel quadro di reti di scuole.
Più ampiamente, la dimensione di rete, i raccordi, le sinergie, le collaborazioni interistituzionali hanno in questo ambito una portata ed una significatività ancora maggiore che per altri aspetti. Questo per almeno due ordini di motivi: il primo è il rischio
di autoreferenzialità, in quanto fattore di chiusura in termini culturali, che ostacola e rallenta qualsiasi cambiamento; il secondo, questione ancora più determinante all'atto pratico, è che l'innovazione e lo sviluppo di saperi, di competenze, di strumenti, per essere efficaci, non possono che poggiare su approcci scientifici e modelli metodologici consolidati; necessitano di apporti di carattere specialistico; richiedono tempo, supporti, competenze, condizioni organizzative, risorse che, realisticamente, un approccio fai da te non è in grado di garantire.

Irene Bosonin

Nota
(1) Utopie, metafore e fiori di serra, L'école valdôtaine, n. 70.

 

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