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E se tornassimo al racconto

A scuola la storia non piace più. Soprattutto nei tecnici e nei professionali è considerata dalla maggioranza degli studenti una materia inutile, noiosa, incomprensibile (nei licei è più tollerata soprattutto per la sua valenza strumentale, perché si fa storia della letteratura, storia della filosofia, storia dell’arte per cui è più difficile giudicarla inutile).
Le ragioni sono diverse. Innanzitutto la storia paga la crisi delle ideologie, la sfiducia generalizzata verso la politica, la diffusa convinzione che non si possa cambiare il mondo. Una delle motivazioni che ha maggiormente sostenuto in passato lo studio della storia è stato l’interesse per la dimensione sociale dell’esistenza, per la politica, la fiducia che in qualche modo si potesse agire per cambiare il mondo. Quella attuale è una “generazione cinica”, reazione certo all’ubriacatura ideologica dei padri, ma anche espressione della consapevolezza di vivere in un mondo molto lontano da quello delle generazioni precedenti, un mondo fortemente appiattito sul presente che dalla storia ritiene di non aver più molto da imparare.
Paga, inoltre, il fatto che la scuola non sia più l’agenzia formativa primaria, che la costruzione della memoria e la trasmissione dei valori passino assai più attraverso la televisione e il Web che attraverso le lezioni e i manuali scolastici. è sempre più difficile per un insegnante competere con Wikipedia o con le fiction televisive, se non addirittura con cartoni e video-giochi (fonti che troppo spesso gli insegnanti ignorano perdendo drammaticamente il contatto con lo studente).

Magistra vitae?
Temo che contro queste cose ci sia poco da fare, la storia non è più magistra vitae. Forse dovremo un po’ rassegnarci a diventare solo un pezzetto della formazione dei giovani e ritagliarci uno spazio di nicchia dove tenere ferme alcune cose che mi sembrano irrinunciabili.
E una di queste è proprio non arrendersi alla tirannia del presente, mostrando il ruolo del caso e della decisione umana nel determinare il corso degli eventi e non abbandonare ad altre agenzie formative, troppo spesso scientificamente inaffidabili (alla facilità del messaggio televisivo, all’indeterminatezza dell’informazione in rete o agli stereotipi del branco) la costruzione della memoria e gli orientamenti politici del giovane. Credo che la storia abbia ancora un senso (e in questa accezione può recuperare una dimensione di magistra vitae) proprio sul terreno del metodo, nella direzione del controllo dell’informazione, della distruzione degli stereotipi, dell’educazione alla complessità, deve cioè servire a seminare dubbi e ad abituare lo studente a spostare il punto di vista.
Per questa ragione penso meriti riaprire un tavolo di riflessione su un altro aspetto, questo più facilmente rimediabile, del disastro scolastico che ha colpito la didattica della storia negli ultimi decenni.
Facciamo un passo indietro. Un tempo la domanda “a che cosa serve la storia?” aveva, almeno nella scuola, una risposta molto semplice: la storia trasmetteva valori, modelli di comportamento, serviva a distinguere i buoni e i cattivi, serviva a legittimare il presente e a delegittimare il nemico, era uno degli strumenti principali della costruzione della propria identità e forniva i primi strumenti di orientamento nel mondo. Da Omero ai totalitarismi moderni la storia ha sempre avuto un ruolo centrale nell’educazione: doveva fare il cittadino romano o il buon cristiano, doveva “fare gli italiani” o costruire “il sol dell’avvenire”; doveva dirci chi siamo, dove andiamo, chi sono i nostri amici e i nostri nemici.
E la didattica era semplice: il bravo professore era un buon retore, doveva trasmettere emozioni ed ideali, doveva infiammare l’animo attraverso racconti edificanti (come il buon maestro Pierboni) e far imparare all’allievo quella storia, unica, vera, che gli avrebbe consentito di diventare un bravo membro della comunità di appartenenza. Naturalmente si raccontavano storie diverse, si trasmettevano valori diversi, ma le modalità didattiche delle scuole dei gesuiti non erano molto lontane da quelle delle scuole di Mussolini o di Ceausescu.

Dalla lezione al laboratorio
Tutto questo, giustamente, è andato in pezzi. Dal ’45 in poi in Occidente (dall’89 nel mondo ex comunista) è stato tutto un decostruire la storia unica e vera, quella fondata sulla certezza del documento, la storia che infiammava gli animi e che insegnava quanto fosse bello morire per la patria (o per la fede, o per il socialismo). Il buon insegnante, afferma la pedagogia contemporanea, non doveva più essere quello che spingeva i suoi allievi a partire volontari per il fronte, ma quello che insegnava loro a ragionare, a distinguere, a operare razionalmente con strumenti controllabili. L’obiettivo finale doveva essere il cittadino consapevole, tollerante, capace di reperire e di vagliare le informazioni. La storia non doveva più trasmettere valori e modelli di comportamento, ma educare la mente, insegnare ad analizzare razionalmente un problema, controllare le fonti, confrontare i punti di vista. In sostanza lo studente avrebbe dovuto non “imparare la storia”, ma acquisire un metodo, diventare un “piccolo storico”. La “testa ben fatta” , non “la testa ben piena”. Ed è nata una nuova didattica della storia di carattere laboratoriale che avrebbe dovuto sostituire l’accoppiata tradizionale lezione frontale e libro di testo, rendendo lo studente attivo (si impara facendo, non ascoltando e ripetendo) e consapevole dei processi di produzione e di controllo della conoscenza. è la famosa “ricerca come antipedagogia” di cui si era incominciato a parlare negli anni sessanta e che ha invaso soprattutto la scuola elementare e media negli ultimi due decenni.
Con notevoli risultati. Oggi i bambini non imparano più a memoria cose che non possono capire, ma imparano a interrogare un reperto archeologico o a cercare un articolo di giornale. Ed è questo che si chiede giustamente alla scuola di base: non il passaggio dai Comuni alle Signorie o la politica di Luigi XIV, ma l’apprendimento di un metodo di lavoro che possa servire in contesti diversi.
Il “laboratorio di storia” non ha invece funzionato alle superiori. Si è scontrato con un’organizzazione della scuola che non consente attività laboratoriali (non ci sono gli spazi e i tempi per poter “fare ricerca”, la scuola superiore è organizzata per fare lezione non per fare ricerca); si è scontrato con le dimensioni del programma che obbliga l’insegnante a rapide cavalcate nei secoli per poter “finire il programma” (ed è chiaro che la lezione-conferenza è il metodo più rapido, anche se non il più efficace, per trasmettere molti contenuti); si è scontrato con la difficoltà degli insegnanti (soprattutto liceali) di passare dalla logica degli “argomenti svolti” agli “obiettivi di apprendimento”; si è scontrato con la difficoltà degli studenti di interrogare i documenti in assenza di conoscenza di base e di adeguate motivazioni. Almeno nelle scuole superiori la didattica laboratoriale si è spesso ridotta a “bricolage”, a lunghissime esercitazioni da “piccolo storico” in cui l’insegnante guidava a tal punto l’analisi del documento da rendere lo studente passivo quanto quello che ripeteva la lezione dell’insegnante; spesso la costruzione di mappe concettuali, un’operazione che doveva avere una centralità nel rendere lo studente attivo, si è ridotta alla presentazione di schemi alla lavagna o peggio ancora di lucidi da imparare a memoria. La storia si è terribilmente raffreddata, ha perso la dimensione dell’avventura, del sangue e della carne; si sono perse le infinite storie di uomini che sono diventate categorie astratte, strutture, concetti (“l’ascesa della borghesia”, “il conflitto imperialistico”, cosa significano nella testa dello studente? Quali immagini, quali storie passano nella mente dello studente quando legge su di un manuale “crisi economica” o “conflitto sociale”?).

E se adesso vi raccontassi una storia?
Chiunque abbia esperienza di insegnamento della storia sa che quando allo studente si raccontano delle storie l’attenzione è altissima, quando si concettualizza, quando si guarda da troppo lontano, l’attenzione crolla. Se poi si concettualizza soltanto, senza raccontare, allo studente non rimane nulla, se non un profondissimo senso di noia. Con l’acqua calda si è buttato via anche il bambino. Per paura di infiammare gli animi, di trasmettere valori, o anche soltanto di non avere abbastanza tempo per finire il programma, si è abbandonato il racconto, si è ridotta la storia a fonti, analisi di testi, o peggio ancora a una sequenza di strutture o mappe concettuali. Legittime, se ci arriva lo studente, insignificanti se preparate dal docente.
Credo che se vogliamo riavvicinare lo studente dobbiamo innanzitutto tornare al racconto. Non posso incominciare a spiegare la prima guerra mondiale facendo alla lavagna uno schema dei conflitti nazionalistici e imperialistici del primo Novecento. Raccontiamo chi era Gavrilo Princip e come è riuscito (incredibilmente) ad ammazzare il Principe Ferdinando; poi come le segreterie degli stati europei hanno cercato di gestire la crisi; raccontiamo come può scoppiare una guerra che nessuno si aspettava e che pochi volevano, raccontiamo poi cosa volesse dire un assalto alla baionetta o cosa fosse la vita in trincea (i ragazzi la guerra la conoscono solo nei film e nei video giochi), facciamo loro leggere delle storie di guerra, pagine di lettere dei soldati, ascoltare canzoni, vedere film o documentari. Poi, alla fine, facciamoli ragionare sulle cause e sulle conseguenze della prima guerra mondiale. Ci vorrà molto tempo. Non svolgeremo tutto il programma, dovremo fare delle scelte, ma non dimenticheranno mai come può scoppiare una guerra e che cosa sia veramente.
Questo implica una programmazione coraggiosa: non dobbiamo “fare tutta la storia”, abbandoniamo questi idola del continuum (tanto ci pensano gli studenti a creare le discontinuità), si deve avere il coraggio di scegliere alcuni temi. Innanzitutto quelli alla portata dei ragazzi, quelli che entrano in relazione con la loro esperienza, che possono incidere effettivamente sulla loro cultura. Non ha senso affrontare tematiche come la formazione dello Stato moderno alle medie inferiori o le guerre di successione in ogni ordine di scuola.
La storia è ricchissima di temi su cui gli studenti si interrogano senza sapere che hanno un grosso spessore temporale. Gli incontri-scontri di civiltà per esempio. Non si possono ridurre a due ore le scoperte geografiche perché si devono fare le guerre d’Italia. Meglio fermarsi due mesi sull’incontro fra l’Europa e l’America e far riflettere gli studenti sul rapporto fra Cortes e Montezuma o su James Cook e le popolazioni hawaiane, temi di straordinaria attualità, e saltare la guerra dei Trent’anni (che gli studenti non riescono a capire). Ma lo si racconti il viaggio di Magellano, perché lo studente non ha idea di cosa vuol dire vivere tre anni su di una barca a vela in mezzo a un oceano sconosciuto, tra bonacce e tempeste, bevendo acqua putrida e mangiando i topi, sopportando lo scorbuto e la frusta. Spesso l’insegnante crede che basti dire “guerra di posizione” perché lo studente si immagini il fango, la fame, i rumori e gli odori della vita di trincea, ma i nostri studenti non hanno più i racconti dei nonni che la guerra l’avevano fatta e probabilmente non hanno letto Un anno sull’altipiano, né visto Orizzonti di gloria. La storia diventa appassionante se la si guarda da vicino, niente è più noioso di un manuale che appiattisce tutto con uno sguardo dall’alto, che trasforma le vite in concetti, gli avvenimenti in cronologie, i luoghi in cartine. Questo strumentario va bene alla fine, per ripassare, sistemare le conoscenze, costruire periodizzazioni, riflettere su cause e conseguenze, ma dietro si devono avere le storie.

Senza prendere gli uomini a mucchi
C’è dunque qualcosa da salvare della didattica tradizionale. Il ritorno al racconto, ma con un’angolazione nuova. Va bene la Piccola vedetta lombarda, ma si racconti la storia anche dal punto di vista degli austriaci, senza buoni e cattivi. Si raccontino tante storie, da punti di vista diversi, e poi si aiuti lo studente a porsi delle domande, senza arrivare troppo rapidamente alle conclusioni. Credo che combattere i pregiudizi, gli stereotipi, le generalizzazione affrettate, le categorie sommarie, le certezze assolute e insegnare a controllare le fonti, fare ipotesi, verificare le procedure, dubitare delle conclusioni sia un obiettivo primario che dà ancora un senso all’insegnamento della storia.
Io ho avuto due grandi Maestri. Il primo fu mia zia.
Un giorno, in quinta elementare, le raccontavo con tutta l’indignazione trasmessami dal mio maestro l’orribile esecuzione di Cesare Battisti, per impedire la quale, nei miei giochi d’infanzia, avrei voluto dare l’assalto al Castello del Buon Consiglio e ammazzare tutti gli austriaci che incontravo. Mi disse semplicemente: “Ma per gli austriaci Cesare Battisti era un traditore!” Non mi ripresi mai più.
Il secondo fu Franco Venturi. Noi giovani dottorandi, cresciuti tra marxismo e strutturalismo, parlavamo sempre di classe operaia, di borghesia, di notabilato, di colonialisti, di italiani, di ceti e di strutture sociali e lui ci guardava sempre con aria perplessa finché un giorno sbottò: “Ma perché prendete sempre gli uomini a mucchi?”.
E ci obbligava a scrivere biografie. C’è voluto del tempo perché interiorizzassimo la sua lezione (forse c’è voluto il tracollo delle ideologie), ma se noi riuscissimo a convincere i nostri studenti che i marocchini o gli americani non sono tutti uguali forse insegnare la storia potrebbe servire ancora a qualcosa.

Marco Cuaz

 

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