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Il realismo delle fiabe

“Ricordo un dialogo con una bambina di tre anni, che mi chiedeva:
- E dopo che cosa farò?
- Dopo andrai a scuola.
- E dopo?
- E dopo in un’altra scuola, per imparare più cose.
- E dopo ancora?
- Diventerai grande, ti sposerai…
- Eh, no…
- Perché?
- Ma perché io non sono mica nel mondo delle fiabe, sono in quello delle cose vere.”
(1)

Il breve dialogo che Gianni Rodari cita nella sua ben nota Grammatica della fantasia sollecita sicuramente nel lettore tanti ricordi di infanzia, di quando la sua immaginazione
gli spalancava le porte di stanze meravigliose, il magico mondo delle fate e dei fantasmi, i boschi di Biancaneve e Cappuccetto Rosso,
i deserti e i pianeti del Piccolo Principe. Se oggi, per quel lettore diventato grande, questo universo è chiuso a chiave nel cassetto in cui sono relegati i suoi libri di fiabe, ad intermittenza non cessa però di battere in lui il dubbio se l’“e vissero felici e contenti” appartenga alla sfera della fantasia oppure abbia ancora qualche possibilità di divenire realtà… Le fiabe ci illudono oppure ci dicono seriamente qualcosa di noi? Sono storie inventate o narrazioni, sotto forma allegorica, delle nostre stesse storie?
È comprensibile che la domanda si ponga, specialmente in un contesto qual è il nostro di modernità liquida,(2) in cui tutto fluttua e nulla sembra consolidarsi e restare per sempre, benché l’uomo non abbia smesso di sperare che un giorno esca il genio dalla lampada a realizzare i suoi sogni di eternità. Ma se le fiabe alimentano fantasie tragicamente illusorie, la domanda necessariamente si pone: è giusto leggerle ai bambini, se si rischia di crescerli in mondi immaginari che li potrebbero indurre ad elaborare una visione distorta del mondo e ad interiorizzare atteggiamenti che rischiano di allontanarli dal reale?

Già Vladimir Propp ha dimostrato che la pratica del raccontare storie risale a tempi antichissimi e nasce come necessità di raccontarsi, come tentativo, attraverso la parola, di disvelare significati e di attribuire senso alle proprie esperienze e speranze.(3) La critica psicanalitica è andata anche oltre: al di là del famoso e discusso libro di Bruno Bettelheim,(4) essa ha dimostrato che ascoltare una fiaba è sempre anche rivivere tranches del proprio cammino, della propria vita. In tal senso, la fiaba riveste un ruolo fondamentale nell’infanzia: “usare una storia per aiutare un bambino con le sue emozioni è come dire: guardiamo le vite di questi protagonisti, invece che guardare direttamente te”.(5) Tale genere letterario, infatti, tematizzando sotto semplice forma narrativa alcuni dei compiti di sviluppo fondamentali in un normale percorso di crescita (il distacco dai genitori, il superamento della paura del buio o dell’abbandono, l’elaborazione del lutto) svolge una funzione catartica per il bambino, che attraverso l’ascolto impara ad assorbire quei conflitti interiori che egli non è ancora in grado di esteriorizzare.
Da questo punto di vista, il genere può assumere una valenza profonda anche per l’adulto, specialmente se si selezionano fiabe classiche, che sono sempre ad alto contenuto simbolico.(6)
Proprio in virtù del simbolismo, la fiaba, lungi dall’esser ascritta alla letteratura minore, è accomunata alla poesia, al mito e al racconto sacro.(7) Tali generi, infatti, pur presentando differenze, richiedono tutti un approccio che non si fermi alla lettura letterale, che indaghi invece la polisemia e la poliedricità dei significanti alla ricerca del significato profondo del testo. Infatti, come ci ricorda Claude Lévi-Strauss a proposito del mito, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, tali produzioni letterarie non sono puro frutto della fantasia: “l’uomo osserva la realtà e, usando le proprie facoltà mentali, ne fornisce una spiegazione. Si tratta naturalmente di un modo di procedere lontano dalla logica scientifica: ma l’obiettivo non è quello di scomporre la realtà e conoscerla negli elementi che la compongono, ma è la comprensione generale dell’universo - e una comprensione non solo generale, ma anche totale”.(8)
Se la fiaba, come poesia, mito e narrazione sacra, è una costruzione di significato, un tentativo di tracciare una visione del mondo, è anche vero che si configura come un’interpretazione, soggetta a varianti e sempre in fieri, poiché il senso ultimo rimane sempre oltre. Tale margine di non-conoscenza, di indefinito, tipico di questi generi letterari, è proprio l’elemento che ne sancisce la peculiarità: è questo “non-finito”, questo mistero che allontana e al tempo stesso attira il lettore e che suscita nei bambini il desiderio di ascoltare più volte la stessa storia, di cui raramente interessa veramente il contenuto.(9)
Risulta chiaro, allora, che nessuna domanda sulla verità o la falsità della storia può trovare risposta, né ha senso di esistere. Tali generi, d’altro canto, non possono di certo essere ascritti al realismo, almeno non
nella sua accezione più consueta, quella della categoria letteraria indagata da E. Auerbach sotto cui vanno generalmente collocate le opere letterarie che hanno come obiettivo la mimesi del reale.(10) Tuttavia, poiché attraverso la fiaba, come attraverso gli altri generi sopradescritti, il lettore ha la possibilità di esplorare i plurimi significati del mondo e di scavare nella propria interiorità, essa sembra assumere una configurazione persino più reale dei racconti realistici, se parliamo di reale non nell’accezione di visibile, di tangibile, ma piuttosto di vivo, di vero. La fiaba è realistica in quanto parla della vita e del mistero in essa celato, che essa cerca di rappresentare attraverso simboli concreti. D’altronde, come ci ricorda Cristina Campo, “soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio ardente al Grillo parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola(11).
La fiaba diventa così veramente “un’iniziazione all’umanità, al mondo dei destini umani”, come ha scritto Italo Calvino.(12) Essa non solo non genera fantasie che esulano dalla realtà, ma nutre l’immaginazione, quella capacità di vedere in profondità il reale, di guardarlo dentro, di contemplare il mondo,(13) quella facoltà senza la riabilitazione della quale, come temeva Leopardi, “il mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto”.(14)
Ma allora si può porre un discrimine tra narrazione e realtà, tra storie raccontate e vita vissuta?
Prendiamo l’esempio de La bella e la bestia, celeberrima fiaba di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont, di cui la più nota versione disneyana ha cancellato profondità e simbolismi: è davvero solo una storia?
La vicenda della bella bambina costretta ad andare ad abitare nella sontuosa dimora di una Bestia(15) non sembra così lontana dalla vita di Natascha Kampusch, tenuta segregata per otto anni da un tecnico elettronico in casa sua.
Eravamo in una situazione paritaria - ha raccontato la ragazza dopo la liberazione - lui certe volte mi coccolava, altre mi maltrattava, ma in quella casa sono cresciuta al riparo da molte cose… anche se la mia vita quotidiana è stata caratterizzata dall’angoscia legata alla solitudine”.(16)
La stessa angoscia e solitudine hanno segnato Belle, che pure, quando incontra la Bestia, dice immediatamente al padre: “La Bestia non è cattiva: vedi che non mi ha mangiato?” e, in seguito, alla Bestia stessa: “Ti ringrazio sinceramente. Sei tanto affidabile e generoso che non mi sembri nemmeno più così brutto. E io preferisco un essere come te, brutto e buono, a un altro bellissimo ma cattivo.(17)
Che la Bella non veda nella Bestia un orco accade nel mondo delle fiabe, ma anche nella vita reale.
E se questa sia pazzia o profondità interiore, malattia o capacità di guardare oltre non sta a noi dirlo. Certo è che qui ogni differenza sfuma e le storie dei libri e le storie di vita si intrecciano senza sosta, le ricostruzioni di storie realmente accadute con il tempo assumono parvenza di miti e le fiabe si tramutano in realtà, in storie vissute.
È vero, mentre Belle ha la gioia di vedere la Bestia trasformarsi in un bellissimo principe, Natascha ha dovuto assistere, rammaricandosene, al suicidio del suo carceriere. Tuttavia, a ben vedere, in entrambi i casi si tratta della vittoria, sempre che di vittoria si possa parlare, del più debole sul più forte, entrambe le storie hanno un finale di salvezza, di speranza.

Forse, è proprio di questa speranza che ha bisogno il nostro mondo, che appare ai più un serraglio di disperati, come Leopardi profetizzava, pieno di orchi e di fate cattive. E se è così, più che mai a chi si occupa di educazione spetta il compito fondamentale di raccontare storie, cosicché i bambini possano esplorare la vita, desiderarla, e affidarsi. “A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile. Sperare e affidarsi sono cose diverse… Chi ripete ostinatamente ‘Speriamo’ non si affida: spera solo in un colpo di fortuna, nel gioco momentaneo propizio della legge di necessità. Chi si affida non conta su eventi particolari perché è certo di un’economia che racchiude tutti gli eventi e ne supera il significato come l’arazzo, il tappeto simbolico supera i fiori e gli animali che lo compongono. Vince nella fiaba il folle che ragiona a rovescio, capovolge le maschere, discerne nella trama il filo segreto, nella melodia l’inspiegabile gioco d’echi.(18)
E chissà che, a forza di raccontare, anche gli adulti imparino a ragionare al rovescio, a discernere la trama che lega eventi e persone, a sperare in mondi nuovi. Come la storia di Shahrazàd dimostra, raccontare storie per mille e una notte non solo permette di salvare sé stessi, ma capovolge anche le sorti della società e ridona vita ad altri. I mondi immaginari, o meglio immaginati, diventano allora il mondo reale, le storie intese alla maniera dei bambini prendono corpo nella nostra vita, nella nostra carne, diventano biografie, frammenti delle nostre esistenze che tutte insieme fanno la Storia.
Raccontare è sempre, almeno, iniziare a sperare.

Manuela Lucianaz

 

Note
(1) RODARI G. (1973), Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino, p. 142.
(2) BAUMAN Z. (2002), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari.
(3) Cfr. in particolare PROPP V. (1966), Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, e (1977) Le radici storiche dei racconti di magia, New Compton, Roma.
(4) BETTELHEIM B. (1989), Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano.
(5) SUNDERLAND M. (2004), Raccontare storie aiuta i bambini, Erickson, Trento.
(6) CAMBI F. (1999), a cura di, Itinerari nella fiaba: autori, testi, figure, ETS, Pisa, p. 299 ss.
(7) Le lingue nordiche hanno un’unica parola, ‘saga’, per dire ‘mito’ e ‘fiaba’, e in Toscana la fiaba era chiamata ‘la novella’, proprio come furono detti i Vangeli. Cfr. CAMPO C. (1987), Gli imperdonabili, Adelphi, Milano.
(8) LÉVI-STRAUSS C. (1980), Mito e significato, Il Saggiatore, Milano, p. 31.
(9) Come ci insegna G. Rodari, “del resto, quando il bambino attraverserà, nella fase realistica dell’infanzia, il suo periodo di contenutismo, la fiaba cesserà di interessare il bambino” (op. cit., p. 142).
(10) AUERBACH E. (1956), Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, vol. II, p. 97.
(11) CAMPO C., op. cit, p. 167.
(12) Introduzione a CALVINO I. (1970), Fiabe italiane, Einaudi, Torino.
(13) RODARI G., op. cit., p. 142.
(14) LEOPARDI G., “Frammento sul suicidio”, in LEOPARDI G. (1820), La strage delle illusioni, a cura di RIGONI M.A., Adelphi, Milano, pp. 51-54.
(15) Versione originale della fiaba La bella e la bestia di LEPRINCE DE BEAUMONT J.-M., 1741.
(16) BETTIN G. (2006), Natascha, c’era una volta una bambina, www.feltrinelli.it.
(17) LEPRINCE DE BEAUMONT J.-M., op. cit.
(18) CAMPO C., op. cit., p. 41.

 

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