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Storie che curano

Le storie aiutano a digerire la vita. Non è un pensiero mio, ma di uno scrittore citato su un numero de La Repubblica di quest’estate, così lontana ormai, l’estate, che non sono più riuscita a ritrovare quell’edizione e a rintracciare il nome dello scrittore. Però ricordo quello che diceva.
In sintesi, affermava che noi umani non facciamo altro. Quando ci incontriamo e ci diciamo come va? ci raccontiamo piccoli pezzi di storia. Se entriamo in un bar o in un altro locale pubblico lo verifichiamo immediatamente: lì si digerisce la vita. Ognuno il proprio boccone. Mentre lo racconti lo mastichi e inizia la digestione e, come i cibi, ci sono storie che nutrono, altre che curano, altre ancora che ti avvelenano piano piano. Intanto costruiscono pezzi di vita.
Avevo una nonna che diceva che bisogna stare attenti a ciò che si desidera, perché potrebbe anche darsi il caso che il nostro desiderio si avveri. Analogamente suggerisco di porre attenzione alla storia che ci raccontiamo e raccontando porgiamo agli altri. Perché se ciò che è accaduto non si può più cambiare, come ce
lo raccontiamo fa la differenza. Punteggia il nostro presente. Inciderà senz’altro sul nostro futuro. E ancora di più incide come raccontiamo la Storia, quella con la S grande, quella che costruisce il futuro collettivo.
James Hillman, in Storie che curano (questo me lo ricordo!), afferma che i modi narrativi dei terapeuti si limitano solitamente a quattro tipi: epico, comico, poliziesco e realistico, mentre l’allenamento all’ascolto e
la frequentazione letteraria permetterebbero di rintracciare una più grande varietà di stili e generi nelle narrazioni delle persone.
Ecco, mi pare che qui ci siano già alcuni elementi di riflessione utili anche per noi insegnanti.
Come raccontano i nostri alunni? Quale stile, quale sapore hanno le loro storie quando ci parlano degli eventi della loro vita? Siamo in grado di cogliere un odore, un tono,
il suono dei loro racconti? Perché sono persuasa che soffermandoci un po’ sul come ci parlano e narrano di loro stessi finisce che ci conducono su una strada, ci mostrano una, forse più, porte di comprensione. Ci aiutano ad aiutarli nei processi relazionali e in quelli d’apprendimento. Come capiscono, come imparano, come “digeriscono” le storie dure e quelle soffici che la storia ci tramanda.
Comprendere lo stile usato per parlare di sé, per raccontare la propria storia permette di costruire senso attorno ad una trama, ad una serie di episodi apparentemente slegati tra loro. A noi insegnanti consente di aiutare i bambini nel processo di costruzione e consapevolezza di identità.
Volete un esempio? Allora vi racconto una storia.

L’amicizia esiste?
Classe quinta. È giovedì mattina e il giovedì mattina si lavora sulla produzione scritta in lingua italiana. Insomma si scrive, si ragiona su come si fa a scrivere un testo per narrare, per informare, per argomentare. Oggi la mia proposta è di lavorare, ancora, sul testo argomentativo.
Certe volte abbiamo letto dei brani sul libro di testo o su articoli di cronaca e, in cerchio, ognuno ha preso la parola ed espresso il proprio punto di vista, fatto esempi, chiesto spiegazioni a chi è intervenuto prima, appoggiato delle opinioni, criticato delle altre. Poi si è passati alla fase scritta, provando ad introdurre un’opinione su un argomento e a giustificarla, ad esemplificarla. A trarre delle conclusioni.
Questa volta si fa un brainstorming… si raccolgono sinteticamente le idee su un cartellone. E il tema è: l’amicizia esiste?
Un bambino si fa garante del turno di parola, un altro scrive per tutti.
Inizio sottotono… per forza, li ho appena “cazzuolati” perché non rivedono le correzioni… ma insomma, la conversazione parte.
Sono sorpresa perché dopo quattro interventi, l’opinione che va per la maggiore, con poche sfumature, è che l’amicizia, quella vera, per questi bambini non esiste.
Finalmente la conversazione prende corpo. I bambini cominciano a raccontarsi un po’ di più, ad articolare i loro interventi, ad esprimere dubbi, a fare esempi. Un’alunna in particolare si lascia andare ad un racconto molto emozionante coinvolgendo in un abbraccio alcune compagne e conducendo la classe verso un’atmosfera intensa, di reciproca accettazione.
Alla fine di quell’episodio mi giro verso i bambini che sono tornati a sedersi in cerchio. Uno di loro è con le braccia raccolte sul banco e la testa appoggiata che si muove vistosamente su e giù. Mi siedo e lo osservo ancora perché non capisco se sta facendo scena o cosa.
Risposta: “Cosa”.
Risposta immediatamente successiva: sta mettendo in scena la sua “cosa”.
Piange convulsamente. Porca miseria, non è finita.
- C’è qualcosa che posso fare per te?
Fa cenno di no. Ora, la mia sensazione è che con lui si farà prima. Perché è un bambino emotivo che normalmente parla molto, è spesso critico nei suoi interventi e talvolta polemico, facile alle arrabbiature. Empatico, sente come stanno gli altri perciò li anticipa nelle reazioni. Fa interventi che suscitano riflessioni e quasi sempre ha la battuta pronta e arguta. Comincia a parlare e singhiozzare insieme.
- È solo che anche mio nonno è morto e a me dispiace che non sono potuto andare al suo funerale perché ero qui. E quando la mia mamma ha telefonato e mio papà è venuto a dirmelo io sono scoppiato a piangere perché gli ero molto affezionato.
- Facevate delle cose assieme?
- Sì e io gli volevo bene e adesso mi sento in colpa che sia morto che io non l’ho visto.
- Tu credi che se lui fosse qui adesso sarebbe arrabbiato con te?
- No, quello no.
- E dipendeva da te andare al funerale?
- No, è che io non potevo andarci perché c’erano già mio papà e mia mamma.
- E come ti senti mentre dici questa cosa?
- Lo so che in fondo non è poi tanto colpa mia. Cioè non è colpa di nessuno, però io sto male.
Ha delle intuizioni che mi colpiscono sempre per la loro rapidità.
Piange ancora un po’. Ho la sensazione che abbia bisogno di qualcosa che non dice. Forse che non sa.
- Qualcuno dei tuoi compagni ti è stato d’aiuto allora?
- Sì, e indica tre compagni.
Loro si avvicinano ed è lui stesso che si alza e li abbraccia tutti e tre insieme dando loro una pacca sulla spalla.
Sto zitta e osservo. Lui si guarda attorno per un po’ poi si gira e mi guarda.
- Adesso sto meglio.
La mia fantasia era che avesse bisogno di sentirsi anche lui al centro di un abbraccio. E se dovessi dire com’è che io avessi questa fantasia, mentre lui mi parlava di suo nonno e dei suoi sensi di colpa per non essere andato al funerale, non lo so. So solo che ho ascoltato le sue parole e ho ascoltato quello che sentivo io e di nuovo lo guardavo, lo ascoltavo e non ho fatto altro.
Quasi subito, restando in contatto con lui, m’è comparsa l’immagine del proscenio teatrale e me la sono tenuta lì. Mentre parlava e singhiozzava, io cominciavo a vedere il sipario che si alzava e le tende di velluto rosso e noi lì, in platea, ad assistere alla scena di lui che piange.
Così ho sentito che il teatro ci stava bene.
“Ho visto” i suoi amici salire la scaletta della platea, raggiungerlo ed abbracciarlo e lui che li congedava con una pacca sulla spalla – lui a loro! - e diceva “Grazie” come chi raccoglie gli applausi e i complimenti del suo pubblico.
Sorride con quella che a me sembra “una faccia da schiaffi”. Lo sguardo però è meno cupo di prima e il volto appare meno congestionato. Sembra più arioso.
Lo spettacolo è andato bene.
E con questo voglio dire che quell’immagine lì ha funzionato per me, per riuscire ad aiutarlo senza fare nient’altro che lo spettatore che applaude ogni tanto. Lui sapeva benissimo come starci in quel contesto. Non aveva bisogno di me, sapeva come stava e sapeva che il suo senso di colpa era parziale. E ciò nondimeno era tutto vero: il suo dolore, il suo pianto, il suo senso di colpa, l’immagine del teatro, lo stare sulla scena, i compagni che lo abbracciavano, le tende rosse che si chiudono, il suo sorriso soddisfatto. Quello che ho fatto io è stato autorizzarlo dentro di me a stare sulla scena. Stare lì, farci stare gli altri. Crederci. Se non avessi “visto” il teatro mi sarei sentita in imbarazzo, forse anche presa per il naso, o forse semplicemente non presente.
Guardo tutti i bambini. Hanno espressioni intense. Occhi lucenti, zigomi arrossati, sorrisi nuovi nuovi.
- Come state?
- Io non ho pianto prima.
Dice uno.
- Non era necessario piangere.
- È che mi sono sforzato di non piangere.
- E farlo ti è costato?
- Sì.
- Come ti senti mentre lo dici?
- Bene, cioè è stato faticoso, ma sono contento così.
Ha alzato le spalle mentre lo diceva. Ma sono consapevole che siamo tutti stanchi. Scelgo di non continuare.
- Ok bambini, se vi può tornare utile, tenete conto di quello che vi è successo qui quando scriverete il testo.
- Non è mai successo che piangessimo così.
- Davvero, mai.
Ma guarda.

Suona la campana e si esce in cortile.
Sole di marzo, il pallone che rimbalza sul selciato, bambini che gli corrono dietro, golf buttati in un angolo per terra. Odore di tempo che passa tra un calcio ad una palla e un’altalena che decolla verso il cielo.
Ma allora l’amicizia esiste?

Sandra Scafandro

 

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