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La normalità di due "mestieri" complessi

Una lettura misurata e attenta degli interventi dei genitori alla ricerca di elementi di comprensione che facilitino la relazione tra scuola e famiglia.

Per provare a riflettere da un punto di vista psicologico su come i genitori vedono la scuola proverò a partire da lontano. Mi pare opportuno iniziare da quando un figlio si affaccia nella vita dei genitori: da quel momento ogni rapporto importante del bambino con i contesti extra familiari futuri, compresa la scuola, prende avvio.

La storia inizia quando il figlio nasce

Fare un figlio ha molti significati per il genitore, conosciuti, inconsapevoli, razionali, emotivi: realizzare un progetto, perpetuare se stessi, rivivere la propria dimensione di figli, realizzare in parte la propria onnipotenza. Vuole dire sperimentare un rapporto affettivo intenso, unico; nutrito lungamente da una dipendenza che cambia l’esistenza, la complica e, nel contempo, la arricchisce. Significa dare vita a sé stessi attraverso l’altro, attraverso un’avventura di coppia che protegge, nutre, tollera, “costruisce” un altro essere sul quale inevitabilmente si proiettano le proprie aspettative: un’esperienza che acquista significati differenti per ognuno di noi.
Già solo gli aspetti citati possono servirci per capire come i genitori si rapporteranno con i diversi contesti con cui il figlio progressivamente interagirà, in particolare con quella “imponente” istituzione che è la scuola, dove di fatto egli passerà quasi più tempo che a casa.

La scuola del genitore e la scuola del figlio

La scuola, prima che l’istituzione che accoglie il figlio, è stata la serie temporale di organizzazioni, attraverso cui ognuno di noi è passato, riportandone vissuti più o meno piacevoli, traendone ricordi positivi e negativi, sempre provando emozioni, aspettative, delusioni e ricevendone conferme e disconferme. Tutto ciò compone nella mente una gamma variegata di esperienze legate a persone più che ad apprendimenti, a esperienze più che a programmi, a relazioni sovente più vive coi compagni che con gli insegnanti, a esperienze di apprendimento “nonostante la scuola”. Questo patrimonio esperienziale riaffiora alla coscienza dei genitori nei suoi aspetti emotivi più che razionali quando il cammino viene ripercorso dal proprio figlio.
Ciò significa, quindi, che quando il figlio deve confrontarsi con la scuola ognuno di noi proietta brandelli più o meno consapevoli della propria storia su quella che il figlio sta costruendo. Come per tante altre avventure della vita, un genitore non può non augurarsi che il figlio patisca di meno, riesca meglio o riesca almeno nella sua stessa misura. L’attesa che l’altro, la scuola, capisca, aiuti, accompagni, risolva è inevitabile, al di là, direi, di ogni ragionevole dubbio, di ogni razionale prefigurazione dei limiti del contesto scolastico, della professionalità dei docenti, delle loro componenti umane (tutti aspetti che nella propria esperienza di studenti si erano man mano conosciuti e dati per inevitabili, dopo però averne patito magari il peso nel vissuto emotivo fissato nel ricordo). Ciò comporta che una parte delle incomprensioni, delle fatiche di rapporto con il mondo dei docenti sia permeata da valutazioni razionali e ponderate, da motivati giudizi di merito, ma anche da interferenze emotive, come ben sa il genitore che deve affrontare con il proprio figlio un percorso scolastico accidentato, a volte fallimentare.

Un figlio da consegnare alla scuola

Confrontarsi con la scuola vuole dire per il genitore, da quando il figlio ha tre anni, rapportarsi con una “grande” agenzia educativa che si sostituisce o almeno si alterna al rapporto privilegiato con i genitori; la scuola diventa un’entità che fa le veci dell’autorità genitoriale e ci si aspetta che lo faccia come, se non meglio, del genitore, in un’attesa carica di significati. Si potrebbe dire che un genitore consegna il proprio figlio alla scuola chiedendo: “Educalo, ma non cambiarlo; insegna, ma non sostituirmi; dai tu quello che io non sono stato capace di insegnare; valutalo, ma non giudicarlo; miglioralo senza farlo soffrire”. Compiti immani, ovviamente, poco riducibili a programmi, offerte formative, valutazioni disciplinari, in un contesto inoltre che non è di rapporto uno a uno, come è almeno in parte quello familiare, ma in un contesto di gruppo in cui il messaggio non può essere che raramente individuale e l’attenzione dell’adulto non può sempre essere dedicata.

Quando un figlio ci pone dei problemi

La nostra esperienza di genitori in rapporto alla scuola si complica quando nel nostro “mestiere” si incontrano delle difficoltà. Crescere un figlio spesso significa confrontarsi anche con aspetti non previsti della sua persona, difficili prima da capire e poi da gestire. Penso, ad esempio, ad aspetti del carattere come la vivacità, il non dormire, il non mangiare, la caparbietà, la fatica comunicativa, l’opposizione, la scarsa autonomia, oppure a tratti intellettivi come la lentezza, la fatica attentiva, la scarsa fantasia. Riconoscere questi tratti costa fatica al genitore, rappresenta aspetti di delusione, di disorientamento, di dubbio, a volte di rifiuto da contenere e trasformare in atteggiamenti educativi e relazionali facilitanti, non semplici da trovare e soprattutto con risultati non sempre immediati. Molto spesso poi sono tratti che si percepiscono, ma non si riconoscono ed è l’impatto con la scuola che li fa emergere, dà loro un nome che può diventare un giudizio pesante da sopportare quasi più per il genitore che per l’allievo. Pare quasi che la difficoltà scolastica del figlio possa rimandare alla difficoltà del genitore a tollerare e a gestire, prima emotivamente poi educativamente, il rapporto con il figlio. Ecco allora che l’insegnante può non rivelarsi abbastanza capace, preparato, tollerante tanto quanto noi abbiamo faticato ad essere capaci, affettuosi, tolleranti. Su queste incertezze si innesta il ricordo emotivo delle proprie frustrazioni di scolari.

Che cosa ci si aspetta dalla scuola

I genitori giustamente, come risulta da alcune interviste, richiedono agli insegnanti di avere equilibrio e di essere disponibili, doti umane non facili da costruire, come se volessero che la fatica genitoriale, quella dell’educare tollerando e rispettando, fosse condivisa anche da chi esercita funzioni educative in altro contesto rispetto a quello familiare.
Vorrei precisare che nel sottolineare questi aspetti non c’è un giudizio negativo né riduttivo verso le aspettative del genitore, c’è però la considerazione che queste attese hanno connotazioni quasi magiche (sollecitando talvolta l’onnipotenza di qualche docente). Tali aspettative possono indurre negli insegnanti rappresentazioni di impotenza e a volte pericolose reazioni proiettive (“la famiglia è assente…, delega…”).

E se parlassero gli insegnanti

A questo proposito sarebbe interessante che venissero fatte interviste anche agli insegnanti sul rapporto con i genitori. Azzardo l’ipotesi che, accanto a considerazioni sociologiche e professionali di tutto rispetto, si potrebbe vedere questo gioco di proiezioni reciproche. Tutto ciò non può non accadere perché il “mestiere” di insegnare, così come quello di crescere dei figli, è intriso di componenti complesse e profonde che vanno oltre la preparazione tecnica del docente, peraltro indispensabile (anche perché indirizza e contiene le fragilità personali), perché l’oggetto del mestiere è una Persona, anzi un gruppo di Persone, cioè di “maschere” (come dice l’etimologia del termine persona) mai completamente conosciute.

L’intelligenza emotiva

All’insegnante si chiede dunque di avere equilibrio ed “attenzione emotiva”, qualità a cui la sua formazione professionale dà poco spazio: un genitore in fondo chiede che l’insegnante sappia proseguire quel processo di identificazione con i bisogni del bambino o dell’adolescente che è alla base dei rapporti affettivi (da quelli con l’innamorato a quelli con il figlio). “Prova a pensare come lui, solo così potrai capire ciò di cui ha bisogno ed essere gratificato nel dare la risposta che lo aiuta, che lo fa crescere”. È in questo senso che leggo alcuni dei commenti dei genitori: “Gli insegnanti non devono fare preferenze… la scuola ha perso mio figlio… la scuola non c’è”. È sempre in questo senso che leggo la pena vissuta negli incontri con il corpo docente, le attese “disumane” nei colloqui parenti, la frettolosità dei contatti, la percezione che l’insegnante parli di un alunno che conosce poco e che cerchi di individuare scorrendo lo sguardo sul registro, sui voti e ricorrendo alle medie…
Mi è parsa molto interessante a questo proposito la testimonianza di quel genitore che racconta di una riunione tra genitori, insegnanti ed alunni per commentare l’atto di indisciplina di alcuni ragazzi in gita e comunicare il conseguente provvedimento disciplinare. Il vissuto è di annichilimento, di impotenza, di giudizio pesante verso i ragazzi, ma quasi implicitamente verso i genitori e l’atteggiamento emotivo del genitore non è di condivisione del percorso messo in atto dai docenti, ma di accettazione passiva. Mi sembra questo un esempio di quando la scuola dichiara implicitamente la sua impotenza educativa, la vuole condividere con i genitori, ma non riesce che a provocare malessere e sudditanza. Il “giudizio” rimpalla dall’esplicitazione dei docenti, al vissuto reattivo inespresso dei genitori, alla sofferenza silenziosa e forse ribelle dei ragazzi. Educare e giudicare, insegnare e contenere, valutare e sanzionare sono compiti che danno origine spesso ad una miscela poco equilibrata.
All’insegnante è richiesto di dar prova di quella sensibilità che gli psicologi chiamano intelligenza emotiva, cioè la capacità di attivare le competenze professionali all’interno di un contesto relazionale e nel quale l’attenzione alla sensibilità dell’altro, a ciò che sente e non dice, a ciò che prova e impaccia la comunicazione, sia dell’allievo sia del genitore, deve essere vigile. In particolare, quando sussistono dei problemi, l’abilità dell’insegnante consiste nel riconoscere quanto la sua emotività faciliti o impedisca la comunicazione. Questo tipo di intelligenza si può studiare, ma soprattutto si deve sperimentare in momenti di autoanalisi e di confronto di gruppo, non esistono comunicazioni impossibili, esistono comunicazioni bloccate, circuiti difensivi che fanno scattare attacchi e chiusure pur nell’apparente rispetto delle regole formali.

Quando il figlio va male a scuola

Se il percorso scolastico del proprio figlio scorre senza traumi le attese non vanno deluse, non ci si interroga neppure troppo su ciò che potrebbe migliorare e si ha magari il tempo di collaborare per gli aspetti organizzativi (gite, incontri culturali, ecc.). La scuola è riconosciuta come un terreno non ostile e gli insegnanti possono anche essere aiutati sia perché si riconosce la loro competenza sia per sorreggere impacci organizzativi o carenze del sistema. Ma se la difficoltà scolastica emerge (ed è interessante vedere come in molte delle interviste questo è accaduto per uno dei figli e non per gli altri, a testimonianza che anche nella “carriera” del genitore non tutto si ripete allo stesso modo, pur presupponendo che l’atteggiamento affettivo non sia stato minore, ma sicuramente di qualità diversa, perché ogni figlio è persona diversa), se qualche intoppo ostacola il processo di adattamento alla scuola del figlio (in termini di difficoltà di apprendimento o di non adeguato impegno o di comportamento difficile), la sofferenza del genitore diventa acuta, così come il suo disorientamento: “Che cosa posso fare io? Quanto devi fare tu insegnante? Chi deve insegnare a studiare? È una competenza che l’alunno deve possedere a priori? È qualcosa che non ho curato nell’allevarlo? È qualcosa che si apprende? Ma allora perché non la insegni tu così come la grammatica o la matematica? Se mio figlio per un insegnante va bene e per un altro ha tante difficoltà che cosa vuole dire? Che qualcuno si accontenta frettolosamente o che qualcun altro esige troppo? Mio figlio è davvero un insieme di più persone, poco integrate? Sono io genitore che devo cucire i pezzi o tu scuola che devi interrogarti ed impegnarti ad integrare il quadro?”.
Io genitore mi scopro impotente e confuso e tu scuola appari “imbrigliata ed impacciata”, come dice un genitore. Allora io genitore posso, magari senza dirlo, schierarmi con mio figlio, volerlo difendere da giudizi troppo severi. Mi trovo ad ammansire l’insegnante che vivo come un’autorità giudicante (ma chi sei tu per giudicare mio figlio?), oppure decido di provvedere in proprio (adesso ti insegno io… ti mando a lezione… gliela faremo vedere…). A volte invece provo ad identificarmi con l’insegnante, come dice un genitore, provo a vedere le difficoltà dal suo punto di vista, perché forse è più competente o forse, sotto sotto, so di non sapere educare, ma spesso allora mi trovo a rinforzare il giudizio negativo chiedendo al figlio uno sforzo di adeguamento, indosso un vestito non mio per insegnare a te figlio l’arte dell’adattamento.

Non ci sono ricette

Ho volutamente usato termini un po’ caricati, per sottolineare la confusione emotiva “oltre che razionale” che un genitore prova quando qualcuno di autorevole, come l’insegnante, dice che suo figlio “non va bene”. Ho inteso così sottolineare che, davanti alla difficoltà dell’alunno, non ci sono ricette, né una facile ripartizione di compiti tra scuola e famiglia.
Spesso il disorientamento del genitore non può che essere la risposta speculare alla confusione, magari celata, dell’insegnante. Nel rapporto istituzionale tra scuola e genitori è difficile tollerare l’impotenza reciproca e si è portati inevitabilmente a cercare soluzioni, talvolta parziali e poco convincenti anche per chi le propone, pur di tollerare meglio il peso della responsabilità eventualmente trasferendolo ad altri.
In alcune interviste mi ha colpito la ricerca del ruolo del dirigente scolastico e l’apprezzamento quando questa figura ha avuto un suo posto sulla scena. Credo che questa richiesta soddisfi una sorta di bisogno di “codice paterno”, cioè di sapere che c’è chi coordina, indirizza, controlla, come in una famiglia c’è una figura di tipo paterno che accompagna ed indirizza l’accudimento di impronta materna. Con questo intervento le difficoltà tra alunni ed insegnanti paiono più tollerabili per il genitore. C’è una figura che sovrintende, che non si sottrae, che garantisce, soprattutto quando le garanzie fornite dall’insegnante per risolvere i problemi sembrano insufficienti.

Dalla scuola comunque si esce

Alcune delle interviste per fortuna testimoniano che spesso, con il tempo, le crisi si superano, il percorso scolastico cambia, approda a vissuti più sereni e gratificanti per i figli, perché i figli crescono, le classi cambiano, il tempo scorre e la scuola perde la centralità del momento, così come nella vita individuale, per fortuna, sono pochi i veri traumi che ci portiamo dietro dall’esperienza scolastica. Crescendo impariamo a relativizzare, a cercare conferme fuori dalla scuola quando questa pare non darle o noi non riusciamo a trovarle. Queste riflessioni non mitigano però il vissuto del momento, quando il genitore percepisce la scuola come un’istituzione ostile che “non si incontra”. Mi pare di capire dalle interviste che questo vissuto è più frequente nei rapporti con la scuola secondaria, soprattutto di secondo grado, quando i protagonosti sulla scena si moltiplicano, la regia diventa più difficile e il protagonista, l’adolescente, è un libero battitore che fa per mestiere (quello dell’emancipazione e dell’individuazione di un sé adulto) il “mattatore” innamorato della sua indisciplina, caparbio nel suo non impegno, nel suo negare e sottrarsi alle regole di studio e di comportamento.
Sigmund Freud, nel 1910, diceva: “… la scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppure sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità propria della vita: non deve voler essere più che un gioco di vita”.

Conclusioni

Mi rendo conto, rileggendo quanto ho scritto, che forse ho creato più dubbi che indicato certezze. Non me ne vogliate, non è per il gusto di complicare filosofeggiando che ho fatto queste riflessioni. Il mio intento è stato quello di sottolineare che, se è vero che il mondo della scuola sta facendo in molte realtà passi avanti per migliorare le competenze, per diversificare le offerte, per tentare di offrire risposte individuali ai bisogni speciali della normalità degli alunni, sta cioè costruendo un processo educativo concreto che non tenga conto solo dell’istruzione, tutto questo non può non passare attraverso il bagno emotivo che è la relazione e questa, per sua natura, non scorre su binari certi e privi di intoppi (sperarlo è magia, difesa, illusione). La ricchezza dell’esperienza scolastica consiste nel mettere in gioco se stessi e capire quanto anche l’altro si mette in gioco con il suo bagaglio di conoscenze, di abilità, di disponibilità, ma anche di emozioni, fragilità, timori, invidie, opposizioni e ritiri e questo vale sia se l’altro è l’allievo sia se l’altro è il genitore.

Raffaella Sanguineti

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