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Il gioco come dispositivo formativo permanente

L’autore dimostra come, dal Romanticismo in poi, la pedagogia riconosce al gioco una valenza formativa multiforme e complessa che contribuisce alla formazione integrale dell’uomo.

Non si smette di giocare perché si invecchia,
ma si invecchia perché si smette di giocare

G. B. Shaw

La scienza che più di ogni altra ha indagato la fenomenologia del gioco eleggendola a sistematica tematica di studio è senza dubbio la pedagogia(1). Ciò è avvenuto, per lo meno in passato, poiché questa disciplina, legata da un particolare interesse al puer (anche testimoniato dalla radice etimologica greca paidos) ha individuato nel gioco, specialmente dal Romanticismo in poi, un potente strumento di formazione.
Gioco ed infanzia, pertanto, è divenuto un binomio tanto scontato quanto ineludibile, tanto nella prospettiva preventiva(2) (un bambino che non gioca o è malato o non è “normale") quanto nella prospettiva prettamente didattica, volta cioè ad utilizzare il gioco come produttivo strumento di apprendimento. Del resto, la pedagogia del Novecento, dalle sorelle Rosa e Carolina Agazzi a Maria Montessori fino ai più recenti Jean Piaget, Jerome
S. Bruner e Howard Gardner, univocamente, ha esaltato il gioco quale potente strumento educativo, non confinato soltanto al mero divertissement del bambino ma proteso invece alla più complessiva ed integrale formazione dell'uomo(3).
La possibilità, giocando, di attenuare i nessi logici che descrivono il mondo della necessità, infatti, consente di allenare la mente umana al paradigma della congiuntura e del possibile. Scriveva Jean Château che “L'attitudine estetica, l'attitudine scientifica e perfino quella speculativa hanno una natura molto simile a quella dell'attitudine ludica: né ci si deve sorprendere allora se ammettiamo che il gioco sia la sorgente comune di tutte queste attività superiori”. Il gioco, inoltre, specchio potenziante delle realtà future, spezza i nessi della causalità di un tempo monodimensionale ed irreversibile, aprendo al giocatore, nella simulazione del "come se", spazi di sperimentazione progressivamente più liberi e sicuri. Ciò, a maggior ragione, avviene nella stagione dell'infanzia, quando le regioni di realtà interdette all'esperienza diretta sono molte ed il bisogno di sperimentazione (motorio, intellettuale e manipolativo) impellente ed inderogabile, pena quella deprivazione sensoriale che altererebbe irrimediabilmente lo sviluppo rendendo la personalità del futuro adulto rattratta ed inespressa.
La psicologia dinamica, inoltre, ha scandagliato con sempre maggiore incisività e chiarezza le valenze profonde del gioco in relazione al completo strutturarsi della personalità umana: gioco come evento liberatorio e catartico, gioco come forma di esorcismo da paure ataviche e complessi ancora irrisolti, gioco come forma di sublimazione di energie inconsce e represse costituiscono alcune piste a tutt'oggi attuali che la riflessione psicoanalitica ha consegnato alla pedagogia al fine di cogliere le possibilità originarie che riposano come attesa nella mente di ogni bambino. Il gioco, in definitiva, tanto per l'adulto quanto per il bambino favorisce la crescita e la socializzazione, costituisce un utile svago e una forma di evasione temporanea dalla quotidianità in una realtà alternativa e parallela. A questo proposito Eugen Fink scrive che “Il gioco rassomiglia a un'oasi di gioia, raggiunta nel deserto del nostro tendere e nella nostra tantalica ricerca. Il gioco ci rapisce, giocando siamo un po' liberati dall'ingranaggio della vita, come trasferiti su un altro mondo dove la vita appare più leggera, più aerea, più felice”.
A partire da queste considerazioni non possiamo non convenire con Piero Bertolini quando rileva che, nel mondo della vita (Lebenswelt), gioco ed esistenza sono per il bambino due esperienze consustanziali: nel corso dell'infanzia vivere è giocare e la cifra del proprio vissuto si esprime nel gioco. Il bambino, pertanto, nell'economia della sua esistenza, non dovrebbe avere l'impressione che, con il gioco, gli venga concessa una sorta di pausa rispetto alle sue altre normali attività quotidiane (queste ultime veramente importanti e valide per lui…), ma che si tratta di un suo preciso diritto che deve informare la sua esperienza esistenziale: quasi una modalità generale con cui e mediante cui dare una direzione ed un senso al suo impegno quotidiano(4).
Il gioco, quindi, inteso come attività trascendentale, come umanissimo modo d'intenzionare il mondo secondo significati non già pregiudizialmente dati come scontati, richiama il fatto che il genius ludi di ciascuno necessita di una opportuna ed educata formazione.
Ciò implica una forma di "clausola di salvaguardia pedagogica" dello stesso giocare, oggi come non mai esposto ai rischi di una prassi appiattita sull'aspetto tecnico piuttosto che su quello più prettamente umano e sociale. Un gioco - ed un corrispettivo “giocare” - quindi, inteso come evento autenticamente autotelico (ovvero come fenomeno che ha in se stesso il proprio fine) e non mero dispositivo eteroformativo, inteso come una sorta di sofisticato camuffamento adultistico, dispositivo trucco, dunque, volto a propinare surrettiziamente contenuti culturali e mezzo attraverso cui l'adulto induce il discente a compiti ed impegni non graditi, all'interno di strategie e velleità anticipatorie e di precoce acquisizione di abilità e competenze” (Cesare Scurati). Si pensi, ad esempio ai vari “sapientini”, strumenti che, attraverso la seduzione dei tanti stimoli prodotti dalla macchina, inducono nel bambino un apprendimento nozionistico e mnemonico, privo di un adeguato supporto di senso e di un collegamento con il mondo della vita e dell'esperienza quotidiana.


Il discorso pedagogico, sulla scorta di tutto ciò, oggi non può non rivendicare al diritto al gioco un suo precipuo orizzonte propositivo: un diritto esistenzialmente originario, non funzionalmente derivabile da altro che non dall'interiorità umana e sancito ormai da tempo nelle tante dichiarazioni sui diritti dell'infanzia. In questo senso, infatti, rivendicare il diritto al gioco equivale a reclamare il bisogno dell'uomo a costituirsi non in modo reattivo e con-formato agli interessi del mondo del consumo ma in modo produttivo, autentico, quindi congruente a quello spirito di libertà cui il gioco continuamente anela.
Uno spirito libero ed inquieto - quello del gioco - in cui rischio e possibilità, rito ed innovazione convivono, suggellando un equilibrio che si è consolidato in modo ormai permanente nella storia della civiltà umana. La corda, il pallone, il salto, infatti, sono divenuti metafore essi stessi dello slancio dell'uomo verso l'infinito, disvelando quell'inclinazione, indomabile dell'orizzonte umano verso l'oltre da sé (baratro, nulla o assoluto).
La carica rivoluzionaria dell'atto ludico, il suo essere attività rischiosa ed insopprimibile, quindi intrinsecamente connessa con l'interiorità della persona, suscita in chi gioca uno spontaneo bisogno di protagonismo e di autotrascendenza, poco incline ad essere omologato da pratiche e convenzioni sociali date come immutabili ed immodificabili. Il giocare, infatti, riveste una funzione di stimolo ad una progressiva presa di coscienza di un sé capace di muoversi, di trasformarsi, insomma di manipolare questa stessa realtà… non solo naturale ma anche sociale. In ciò rappresentando una situazione di autentica pericolosità… per una società come la nostra che sia fondata… su una tavola di valori che punta ancora sull'ordine, sull'efficienza intesa come canalizzazione su binari pre-datati e perciò sicuri(5).
L'esperienza del gioco oggi subisce tutto il fascino e la seduzione che si accompagna al progresso tecnologico del nostro tempo: “il virtuale tecnologico può generare una sorta di inframondo purificato dal peso dell'inerzia, delle leggi fisiche che governano il reale; in esso si può sovvertire la dimensione spazio-temporale, rendere sensibile ciò che esiste al di fuori della percezione diretta dei sensi”(6). Tutto ciò, al servizio del gioco, può condurre ad un potenziamento dell'esperienza umana, letta con gli specchi del "come se" e della magica sospensione della realtà oppure può condurre il bambino (ma anche l'adolescente e l'adulto) ad una fuga dal “mondo della vita” ed a una riduzione di quelle energie vitali che spingono la persona ad incontrare la realtà ed a ricrearla all'interno della sua mente attraverso schemi percettivi produttivi e fedeli (non distorti dai vizi rifrattivi della dipendenza e dell'ossessiva ripetizione dell'identico)(7).
La diffusione del “tempo libero” (e con essa il bisogno di strutturare il proprio tempo attraverso forme di entertainment) e l'irruzione della tecnica e del tecnologico nella vita dell'uomo hanno contribuito ad estendere il paradigma ludico ben oltre i confini dell'infanzia e dell'adolescenza innestandosi in quell'alveo cognitivo tradizionalmente riservato ai giochi concessi anche agli adulti. La moratoria psicosociale che confinava il gioco (o per lo meno parte di esso) nei primi anni della vita umana, oggi sembra, per certi versi, attenuata, o per lo meno orientata selettivamente a sanzionare la facultas ludendi solo nelle forme più autentiche di gioco che, per la loro intrinseca demonicità, non sono incanalabili nel circuito economico o culturale più prevedibile ed addomesticato. Parchi gioco, villaggi turistici, videogiochi, cinema, televisione e quant'altro produce la fabbrica dell'intrattenimento, infatti, oggi sono realtà che riproducono messaggi culturali omologati e ridondanti, che innescano processi d'emulazione ed identificazione predisposti su sentieri prevedibili e predeterminati, instradati sui rassicuranti percorsi del “già visto”, del “già dato” e del “già detto”.
La ricerca educativa, nella sua tensione a farsi teoria generale della formazione umana, non limitata ad una specifica età della vita ha incluso ormai da parecchio tempo il gioco nei dispositivi di apprendimento di educazione permanente. Tra gioco, lavoro, studio e apprendimento, allora, si è formata una zona intermedia, detta “ludiforme” nella quale, anche per l'adulto, si offrono situazioni di crescita più stimolanti ed attive rispetto a quelle tradizionali(8). L'esempio più eclatante è quello offerto dalle tecniche di simulazione, quelle cioè che cercano di riprodurre in aula, quindi in situazione protetta e di laboratorio, problemi ed accadimenti simili a quelli della vita lavorativa. Così i business game, le esercitazioni di più varia natura e scopo, possono essere dette tecniche o giochi di simulazione. Per alcune professioni, ad esempio il pilota, esiste addirittura una macchina, il simulatore di volo, che consente il minimo di differenza tra la realtà e la situazione d'apprendimento: quel minimo che limita però i rischi derivanti dall'errore(9).
Il gioco, in definitiva, appare un fenomeno carsico nel quale il fiume scompare e riappare nella cultura e nella società in modo enigmatico e misterioso, quasi a volersi ribellare/proteggere/occultare ai tentativi di irretimento e neutralizzazione operati dalle più disparate forme di organizzazione istituzionale (non ultima la scuola).
Il disvelarsi del gioco è dunque oggi come ieri il disvelarsi dell'uomo in un moto incontrollabile, dionisiaco, volto a fare breccia nel muro della necessità ineluttabile e cieca. Gioco foriero di pace, intimità ed amicizia, gioco inutile e futile come un fiore al quale l'uomo anela con immutata nostalgia: “Portami tu la pianta che conduce/dove sorgono bionde trasparenze/e vapora la vita quale essenza;/portami il girasole impazzito di luce"(10).

Andrea Bobbio

 

Note
(1) KAISER A. (2002),
Il gioco nell'educazione dell'uomo contemporaneo, Pedagogia e Vita, 1, pag. 84.
(2) Cfr. WINNICOTT D. (1974),
Gioco e realtà, Armando, Roma pag. 97.
(3) Si vedano al proposito i classici PIAGET J.,
La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1972; BRUNER J., JOLLY A., SYLVA K. (1981), Il gioco. Ruolo e sviluppo del comportamento ludico negli animali e nell'uomo, Armando, Roma.
(4) Cfr. BERTOLINI P. (1988),
L'esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze pag. 242.
(5) Cfr. Voce “Gioco” in BERTOLINI P.,
Dizionario di Pedagogia e Scienze dell'Educazione, Zanichelli, Bologna pag. 227.
(6) CALVANI A. (1994),
Iperscuola. Tecnologia e futuro dell'educazione, Franco Muzzio Editore, Padova, pag. 35.
(7) Cfr. SCURATI C. (2000),
“Tra i diritti del bambino il diritto alla realtà”, in AA.VV., Il bambino tra reale e virtuale, La Scuola, Brescia, pag. 43.
(8) Cfr. VISALBERGHI A. (1958),
Esperienza e valutazione, Taylor, Torino pag. 164 e ss.
(9) Cfr. CAPRANICO S. (1997),
Role Playing, Raffaello Cortina, Milano, pag. 3.
(10) MONTALE E. (1984),
“Portami il girasole”, in Montale E., Tutte le poesie, Mondatori, Milano.

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