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Un patrimonio da non disperdere

Quali caratteristiche devono avere gli Istituti Professionali regionali, per motivare studenti poco attirati dall’insegnamento teorico e per garantire ai giovani una preparazione adeguata per affrontare la vita professionale e di cittadini?

Con il DM 24 aprile 1992 termina il periodo di sperimentazione assistita di quello che prenderà il nome di “Progetto ’92” (nuovo ordinamento dei professionali) e si apre un nuovo ciclo per l'istruzione professionale.
All'inizio degli anni novanta la scuola viveva un momento particolare della sua storia. La “scuola di massa” nella “società della conoscenza” non era più uno slogan, era diventato l'obiettivo principale dei programmi di lavoro della Comunità Europea, che chiedeva nuovi strumenti e nuove strategie per progredire e per tentare, tra mille difficoltà, di dare un futuro dignitoso ai propri giovani.
In quest'ottica sono stati pensati i nuovi programmi dell'istruzione professionale, che, a partire dall'autunno del 1992, passano dalla fase sperimentale a quella ordinamentale.
Gli indirizzi di studio sono stati sfoltiti e razionalizzati: avevano un numero troppo elevato e proposte troppo specialistiche.
Si proponeva inoltre una maggiore integrazione tra i sistemi dell'istruzione e della formazione professionale, in particolare attraverso i percorsi dell'area professionalizzante previsti nel biennio post-qualifica (Vedi articoli di S. Chouquer, F. Bosi, L. Zombolo).
Anche le indicazioni sulle metodologie da adottare nell'insegnamento, per perseguire gli obiettivi formativi previsti dall'ordinamento, costituivano una novità dal punto di vista didattico, accolta in modo positivo dagli insegnanti, almeno in linea di principio.
Questi tre elementi si potevano considerare gli aspetti positivi della riforma del ’92, ma, tranne il primo (la razionalizzazione degli indirizzi), si sono limitati più che altro a rimanere delle buone intenzioni.
Per la costruzione di un vero sistema integrato, in effetti non bastano le volontà delle singole scuole, ma è necessario un coordinamento regionale di tutti gli attori; inoltre le innovazioni didattico-metodologiche non hanno avuto quella diffusione che ci si aspettava, nonostante i piani di aggiornamento previsti dal Ministero.
Dopo più di un decennio di attuazione, nelle scuole dell'istruzione professionale, dell'ordinamento “Progetto ’92”, ci si è accorti che in molti casi le aspettative degli alunni sono state disattese.
In diverse occasioni, l'utenza degli istituti professionali regionali ha manifestato disagio per la mancanza di quella concretezza, nelle attività didattiche, che è sempre stata in passato la peculiarità degli indirizzi professionali. I nuovi percorsi sono stati caratterizzati da poche attività di laboratorio, scarse realizzazioni pratiche e metodologie non sempre adatte ad un coinvolgimento attivo, l'esperienza personalizzata non è stata posta al centro di un percorso formativo e gli alunni hanno faticato ad individuare gli obiettivi da raggiungere.
Forse, troppa enfasi è stata posta, dai dirigenti e dal corpo insegnante, sul concetto di “bagaglio culturale di base” inteso come l’insieme di conoscenze teoriche fornite dalle materie che si ritrovano in tutti i curricoli della secondaria superiore. La nostra società della conoscenza richiede una preparazione culturale di base più ampia possibile. Tuttavia, puntando troppo su questo obiettivo, si corre il rischio di incrementare gli abbandoni scolastici e di potenziare una “società dell'analfabetismo”.
Tutte queste preoccupazioni sono ben presenti nelle persone che operano a vario titolo nel mondo della scuola superiore e intenso è in questo momento il dibattito in corso su questo tema.
Nella nostra Regione gli istituti professionali hanno avuto un ruolo importante permettendo ad alunni poco motivati, che non avrebbero mai completato percorsi di studio liceali o tecnici, di raggiungere comunque una preparazione professionale adeguata.
L'istruzione professionale, non deve e non vuole essere la “scuola del ripiego”, ma vuole offrire, con delle caratteristiche proprie, ben definite e ben delineate (e qui c'è molto da lavorare), un'alternativa di qualità ai licei.
In Valle d'Aosta occorre veramente pensare ad una rivisitazione dell'istruzione tecnico-professionale per razionalizzare l'offerta formativa ed evitare che quest'ultima sia poco mirata alle esigenze dell'utenza e del territorio.
È necessaria una scuola articolata in percorsi più flessibili, con facili riconoscimenti di crediti formativi; una scuola che proponga una “Offerta Formativa Territoriale” con ampie prospettive occupazionali. È importante creare un valido sistema integrato istruzione-formazione, che, in un disegno unitario, preveda in modo chiaro i ruoli di tutti gli attori presenti sul territorio (istituzioni scolastiche, centri di formazione, Agenzia del Lavoro, Associazioni di lavoratori, ecc.).
Tralasciando le considerazioni di tipo socioeconomico, che comunque rivestono un'importanza fondamentale per una futura legislazione sull'istruzione professionale nella nostra regione, occorre puntare l'attenzione sugli aspetti pedagogici della riforma della scuola superiore.
Un primo punto concerne i veri attori della riforma e l'autonomia delle scuole, ormai elevata a principio costituzionale, infatti, sono le singole scuole e i singoli collegi docenti, utilizzando lo strumento dell'autonomia nelle sue diverse sfaccettature, a fare le riforme.
Ci si può ispirare a dei principi di riferimento, interpretabili in un modo o nell'altro, ma la prassi pedagogica è il vero patrimonio di ogni singola scuola, patrimonio che determina la qualità dei processi formativi.
Progetto, curricolo, laboratorio sono il “tridente formativo” di una prassi pedagogica efficace per rimotivare un'utenza annoiata, e per stimolare una nuova progettazione scolastica, nei docenti.


Comprendere le attitudini e le potenzialità di ogni studente per costruire insieme a lui suo percorso individuale sarebbe veramente un grande successo per ogni scuola.
Le scuole dell'istruzione professionale, per le loro caratteristiche, per il precoce avvio alla professionalizzazione nella formazione iniziale, permettono una concreta progettazione per la definizione di specifici e precisi profili educativi, culturali e professionali.
Progetti così ideati possono permettere il conseguimento di specifiche competenze, misurabili e spendibili direttamente in una occupazione.
Per realizzare un progetto di qualità occorre utilizzare lo strumento pedagogico del curricolo.
Molti pedagogisti ritengono che il concetto di curricolo non sia presente nel "cruscotto" pedagogico della riforma delineata dalla legge 53/2003.
Abbandonare questo concetto, che ha dato significato alla progettazione di molti percorsi scolastici delle scuole superiori, potrebbe essere un grave errore, perché è proprio nel curricolo che si integrano i tre elementi che caratterizzano le offerte formative: istruzione, educazione e formazione.
Per non rinunciare, in alcun modo, a nessuno di questi elementi costitutivi del progetto educativo, occorre, quindi, pensare ad una progettazione curricolare, per la costruzione di percorsi formativi nella scuola superiore.
Il curricolo è l'unico vero strumento che consenti di evitare una scuola della sola istruzione, così come una scuola della sola educazione o formazione. La scuola non deve imboccare, in modo alternativo, un’unica strada: o il neutralismo educativo, rifugiandosi nelle regioni del tecnicismo e dell'istruzione e limitarsi alla pura informazione, al disimpegno valoriale; o la via dell'educativo, privilegiando le “ragioni” dell'uomo, della cultura, della persona, della formazione e della relazione.
“Costruire nuovi curricoli o piani personalizzati di studio e fare scuola oggi vuol dire far rivivere i contesti creativi dei problemi e delle soluzioni di volta in volta dati ad essi, rapportare tali contesti alla dimensione storico culturale ed al contesto vissuto; vuol dire anche favorire modalità attive di organizzazione di tali conoscenze e, attraverso queste far crescere il soggetto, consentendogli di interpretare sempre meglio la realtà, rispondendo in modo efficace ai problemi che di volta in volta si trova a dover affrontare”(1).
È per questi motivi che ritengo che sia un grave errore abbandonare l'idea di curricolo che - come afferma Franco Frabboni - assume tre diverse ed importanti identità pedagogiche. Quella di “regolatore pedagogico” cioè di mediatore/ponte tra la sponda dell'apprendimento e la sponda della socializzazione, tra il versante cognitivo e il versante relazionale, tra le spiagge dei "saperi" e le spiagge dei “valori”. Quella di termostato metodologico, che media tra pratiche interventistiche e pratiche attendistiche, tra procedure individualizzate e procedure non individualizzate, tra opzioni scuolacentriche e ambientecentriche, tra approcci disciplinari ed approcci interdisciplinari. E ultima quella di armonizzatore didattico, che assicura pari dignità ai saperi disciplinari, ai saperi antropologici, di cui è portatore il singolo allievo, e ai saperi ambientali, di cui sono portatrici le risorse/opportunità del territorio extrascolastico (sociale e naturale, formalizzato e informale).(2)
Per quanto riguarda il terzo elemento del tridente formativo, il laboratorio può assumere forme diverse, angoli didattici, centri di interesse, aule specializzate, atelier-laboratori multidisciplinari, zone attrezzate all'aperto, ma tutte con la stessa macrofinalità pedagogica e didattica: l'interdisciplinarità.
L'attività didattica dei laboratori ha il compito di permettere agli alunni esperienze significative in tutte le aree disciplinari e interdisciplinari del curricolo, specie là dove gli obiettivi sono di tipo trasversale e relazionale.
Nei laboratori avvengono interazioni sociali e di qualità cognitiva, che consentono un modo collettivo di fare cultura, attraverso dinamiche di aggregazione degli allievi in gruppi di studio e di creatività.
Le attività di laboratorio puntano all'acquisizione di competenze metacognitive (capacità di elaborazione, scoperta e metodo), fondamentali alla costruzione del corredo formativo che compone il PECUP (Profilo Educativo Culturale e Professionale) dello studente che si affaccia al mondo del lavoro o ad un corso scolastico superiore.
Il laboratorio è forse l'unico spazio in grado di aprire le porte della scuola all'ingresso delle competenze e alle Unità Formative Capitalizzabili (UFC) e nello stesso tempo è anche il luogo della didattica dove è possibile raffreddare le "alte temperature" della dispersione scolastica, recuperando motivazione negli studenti.
L'obiettivo culturale della scuola sta cambiando. La scuola non riveste più il ruolo di unico luogo di erogazione delle conoscenze ed è per questo che il suo nuovo compito è principalmente quello di attivare processi di analisi-riflessione, reinvenzione dei "saperi" in larga parte raccolti fuori dalle pareti scolastiche e quindi di insegnare ad apprendere, a inventare, e molto meno quello di informare.
L'enfasi viene spostata sul come sapere piuttosto che sul quanto sapere. La scuola dei laboratori può contribuire a facilitare questo cambiamento.
In sintesi, dice F. Frabboni, se la classe è la sede deputata prevalentemente a forme di “ricerca fredda”, intesa come istruttoria “critica” sulle conoscenze elementari, di base, trasmesse dall'insegnante e dal libro di testo, il laboratorio si propone con forza come la sede deputata a forme di “ricerca calda”, intesa come modalità di investigazione che si fa produttrice di nuove conoscenze.
Alla luce di quanto esposto, è fondamentale che nelle “indicazioni ordinamentali dei programmi curricolari” venga espressamente richiesto che tra le modalità didattiche da utilizzare ci sia quella del laboratorio, per una parte del monte ore complessivo.
In conclusione, per impostare un vero rinnovamento della scuola del secondo ciclo, dovremmo puntare l'attenzione sulle caratteristiche della prassi pedagogica da proporre agli utenti dell'istruzione - formazione professionale e sulla costruzione di un nuovo sistema integrato che deve essere ripensato nell'ottica della razionalizzazione dell'offerta formativa territoriale e dell'ottimizzazione delle risorse umane e finanziarie disponibili.
Per far questo si dovranno utilizzare tutti gli strumenti legislativi che la Valle d'Aosta possiede, nel campo dell'istruzione e della formazione, per non fare l'errore di subire, totalmente, modelli scolastici nazionali che non si adatterebbero alle nostre caratteristiche regionali.

Maurizio Rosina
Dirigente scolastico dell’Istituzione Scolastica di Istruzione Tecnica Industriale
e Professionale di Verrès e Pont-Saint-Martin.

Note
(1) SALVUCCI L., Le due anime della riforma, Franco Angeli, 2004.
(2) FRABBONI F., Il laboratorio, Laterza, 2004.

 

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