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La formazione professionale dei giovani

Scuola ed economia: l'evoluzione della normativa scolastica, a livello europeo, nazionale e regionale, è orientata, in modo più o meno forte a seconda dei periodi, dalle istanze del mercato del lavoro. Gli obiettivi di sviluppo economico, proclamati di volta in volta come prioritari, influenzano una concezione ora più unitaria, con visioni a medio-lungo termine, ora più "separatista", con prospettive a breve, delle due anime della scuola: la formazione culturale e l'istruzione professionale.


La formazione professionale si pone come la vera sfida dei sistemi di istruzione nazionale ed europea.
Il rafforzamento del sistema educativo e formativo è da tempo posto al centro della strategia europea di rilancio sociale, economico e culturale del vecchio continente.
Ne danno conto le molteplici iniziative e gli organismi di raccordo operanti nel contesto europeo.
Ne fa menzione in maniera più esplicita la Convenzione di Lisbona del 1997, la quale sottende la specifica finalità di creazione di un'area comune delle conoscenze, il progetto di fare dell'Europa, entro il 2010, la società più dinamica e competitiva al mondo.
Un obiettivo ambizioso il cui conseguimento, oltre alla condivisione di un sistema unitario di riconoscimento di titoli (per l'Italia si veda la legge 148 del 2002), ha reso necessario, nei vari contesti nazionali, un profondo ripensamento del modo di fare scuola.
Per quanto riguarda il nostro Paese, questa opera di revisione si è tradotta in una riqualificazione del canale formativo e, sul piano prettamente didattico, in un tendenziale passaggio dall'ambito delle conoscenze, tipico dei tradizionali sistemi dell'istruzione, alla sfera delle competenze, propria del segmento formativo.
Tracce di tale impostazione sono chiaramente rinvenibili sia nella legge 10 febbraio 2000, n. 30 (Riforma Berlinguer), sia nella legge più recente 53/03 (più nota come Riforma Moratti) le quali, almeno sotto il profilo esaminato, esprimono una certa continuità.
Agli inizi del terzo millennio, la formazione professionale si ripropone, dunque, quale nodo cruciale per lo sviluppo sociale ed economico italiano ed europeo.
L'esigenza di creare un forte raccordo fra mondo della scuola e mondo del lavoro fu infatti avvertita fin dagli anni venti quando, nel segmento elementare prima ed in quello secondario di primo grado poi, furono istituite e successivamente organicamente disciplinate, scuole e corsi aventi la finalità di formare "idonee maestranze per lo sviluppo economico della nazione" (legge n. 889 del 1931).
All'area formativa fu dunque demandato il delicato ruolo di coniugare un percorso di istruzione con il soddisfacimento delle esigenze espresse dal mercato del lavoro e dal tessuto economico nazionale.
Questa duplice finalità venne conseguita progressivamente all'interno del sistema di istruzione grazie ad una peculiare offerta didattica.
L'affermarsi di questo nuovo modo di educare vide poi nella creazione degli istituti di istruzione professionale (1938) e nel varo delle scuole di addestramento professionale e dei corsi di riqualificazione aziendale e di addestramento artigiano (1940), i suoi passaggi più significativi.
Ma è con la riforma della scuola media del 1962 che vanno delineandosi i contorni dell'attuale sistema di formazione.
L'ingresso nell'ordinamento scolastico nazionale di una scuola media unica, segnò il tramonto delle scuole di avviamento professionale ed il definitivo passaggio del comparto formativo al segmento secondario superiore.
Con il disegno riformatore del 1962, tuttavia, si consolidò anche quel processo di enucleazione di parte dell'insegnamento professionale dal circuito scolastico che, avviatosi nell'immediato dopoguerra, con l'attribuzione ai differenti percorsi professionalizzanti la possibilità del solo rilascio di qualifiche, trovò compimento nella legislazione degli anni settanta.
In questi si delineò quindi quella biforcazione nell'ambito dell'insegnamento professionale che i più recenti interventi riformatori vorrebbero ricucire.
Con la legge-quadro 845 del 1978 vennero tratteggiati i lineamenti dell'insegnamento professionale in ambito regionale, consentendo alle regioni ordinarie l'effettivo esercizio di quelle prerogative in materia di istruzione artigiana e professionale ad esse demandate con il D.P.R. 10 del 1972, attuativo dell'originario testo dell'art. 117 della Costituzione.
Non transitava, invece, in ambito regionale, rimanendo estranea alla citata normativa di inquadramento, l'istruzione professionale che in forza della legge sulla sperimentazione del 1969 aveva assunto la possibilità di rilasciare titoli di studio, il che ne assicurava la permanenza nel sistema nazionale dell'istruzione.
Questa impostazione trova una sostanziale conferma nel d.lgs. 112/98, anche se lo stesso articolato, nell'ottica di un decongestionamento dell'apparato amministrativo dello Stato (voluta dalle c.d. leggi Bassanini), lascia già intravedere quelli che saranno i futuri sviluppi della materia.
Il decreto del 1998, recependo le linee di sviluppo tracciate dalla legge 196/97 (il c.d. pacchetto Treu), fa infatti cenno a profili quali la certificazione dei crediti formativi e l'istruzione tecnico professionale superiore i quali saranno oggetto di declinazione negli interventi normativi del 1999 costituenti l'ossatura della riforma Berlinguer, cui va il merito di aver introdotto nel nostro ordinamento scolastico il concetto di obbligo formativo (art. 68 legge 144/99).
A questi inequivocabili segnali di raccordo fra canale formativo e settore scolastico non fa tuttavia seguito una altrettanto chiara impostazione nella riforma della carta costituzionale.
Il nuovo Titolo V della Costituzione (legge Costituzionale n. 3 del 2001) ripropone infatti il dualismo formazione - istruzione professionale e lascia immutata la distinzione fra istruzione professionale e istruzione secondaria superiore.
Il nuovo art. 117, in particolare, profila un sistema in cui accanto ad una competenza esclusiva dello Stato nel fissare le regole dell'organizzazione scolastica
sull'intero territorio nazionale e gli standard minimi del servizio erogato, è riconosciuta essenzialmente alle Regioni (salvo il citato limite del livello delle prestazioni) l'iniziativa in materia di istruzione professionale e di formazione professionale.


Questo è il contesto costituzionale in cui si colloca il disegno riformatore dell'attuale Ministro all'Istruzione, Letizia Moratti.
Un quadro normativo fortemente variegato, caratterizzato da una pluralità di protagonisti istituzionali (principalmente Stato e Regioni) e da un groviglio di competenze legislative in materia scolastica.
Anche la legge 53/03, come già la Riforma Berlinguer, coglie esattamente l'importanza che lo snodo secondario assume nell'economia di un progetto di ammodernamento del sistema educativo e scolastico nazionale.
La legge riformatrice del 2003 inaugura un sistema educativo fondato su due filiere (liceale e professionale) in grado di accogliere, con pari efficacia, gli alunni in uscita dal ciclo primario orientandone le scelte verso il mondo del lavoro ovvero verso l'istruzione tecnica superiore ed universitaria, garantendo una mobilità degli stessi fra i due sistemi.
Si tratta del tentativo, sulla scorta della migliore esperienza europea, di fornire dignità educativa al canale della formazione professionale raffigurandolo quale scelta alternativa, ma non di natura residuale, al sistema scuola.
Proprio su questo piano, si consuma la vera sfida lanciata dal Ministero dell'Istruzione, ovverosia quella di creare un sistema integrato forte, nel quale venga soddisfatto il fabbisogno di competenze richiesto dallo sviluppo economico e sociale.
Sintesi di tale impostazione è il concetto di diritto-dovere all'istruzione ed alla formazione fino al compimento del diciottesimo anno di età sancito dall'art. 2 della legge delega 53/03.
In esso si consuma il tentativo di ricondurre ad unitarietà sistemi che conservano finalità e regole sotto molti aspetti dissonanti : la formazione professionale, finalizzata all'acquisizione di una cultura professionale e quale strumento della politica attiva del lavoro (d.lgs. 276/03) e l'istruzione, ripiegata sul profilo dei saperi e dunque sulla preparazione culturale complessiva dei giovani.
Lo strumento didattico atto a dare concretezza a tali aspirazioni sembra essere il PECUP ovverosia il Profilo Educativo, Culturale e Professionale che lo studente deve conseguire al termine del primo e del secondo ciclo di istruzione (art. 2, comma 1 lettere f) e g) legge 53/03).
L'obiettivo è quello di creare, spostando come già detto l'asse dell'istruzione dalla sfera dei saperi a quella delle competenze, un bagaglio culturale e professionale unitario in grado di soddisfare l'ambivalente funzione di garantire l'accesso all'istruzione superiore e l'accesso al mondo del lavoro.
Un portfolio (in particolare per il ciclo secondario) in cui non venga valutato un complesso di conoscenze con riguardo ad uno specifico programma ministeriale, ma si certifichino singole competenze oggetto di potenziale accrescimento nel corso di tutta la vita professionale e lavorativa del singolo.
Nell'economia di questo progetto una rilevanza strategica assume l'interazione con il mondo del lavoro.
A questa logica va ascritta la duplice disciplina che gli istituti dell'alternanza scuola - lavoro e dell'apprendistato ricevono sia nella legge 53/03 sia nella riforma Biagi del mercato del lavoro (d.lgs. 276/03).
Ad una medesima lettura si offre anche l'Accordo quadro tra Ministero dell'Istruzione, Conferenza Unificata Stato-Regioni e Ministero del lavoro del giugno 2003.
Il documento in esame ed i protocolli d'intesa sottoscritti a livello regionale nascondono, tuttavia, un'altra realtà la quale dà conto del percorso tutto il salita della Riforma Moratti con riguardo allo snodo essenziale del ciclo secondario.
Essi infatti, se per un verso rispondono alla dichiarata esigenza di garantire in via sperimentale l'avvio del nuovo percorso secondario a doppio canale, in attesa dell'adozione dei decreti attuativi per il ciclo secondario (provvedimenti i cui schemi sono già stati varati dall'Esecutivo), per altro, celano l'intenzione dell'attuale Esecutivo di governare saldamente una materia (quella della istruzione professionale e della formazione professionale) ormai nel novero delle competenze regionali, evitando fughe in avanti dei legislatori locali.
Di tali accordi si è resa partecipe anche la Regione Valle d'Aosta, la quale tuttavia, pur imbrigliata in questa logica collaborativa, è stata in grado di ritagliarsi, nel corpo dell'accordo, un robusto profilo di autonomia.
Questa scelta, oltre a richiamarsi alle prerogative statutarie in materia (art. 2 lettera r), salvaguarda quello che è stato il percorso dell'istruzione professionale nella nostra regione il cui avvio risale agli anni sessanta.
Risale infatti a questo periodo la prima legge sull'istruzione tecnica e professionale (legge regionale n. 8 del 1960) le cui successive modificazioni (l.r. 19/65 e l.r. 2/76) non ne hanno mutato in modo sostanziale l'originario contenuto, atto a favorire la realizzazione in Valle d'Aosta di scuole professionali nel settore dell'industria, dell'artigianato e del commercio.
L'articolato ha anticipato di circa oltre due decenni l'emanazione delle norme di attuazione del citato art. 2 lettera r) dello Statuto di autonomia avutasi soltanto nel 1989 con il d.lgs. 433.
Proprio in ragione di questo rilevante differimento (la gran parte delle funzioni attinenti le materie statutari erano già state devolute in forza dei provvedimenti del 1978 e del 1982, fra le quali anche la formazione professionale) e visto il radicamento nel territorio che questo tipo di filiera è destinato a creare, il terreno dell'istruzione tecnico professionale venne, a ragione, eletto ad ambito in cui maggiormente sviluppare le istanze di autonomia regionale.
Queste pulsioni verso un modello educativo maggiormente confacente alle specificità culturali e linguistiche valdostane, diedero vita alla proposta di creazione dei c.d. Lycées Techniques ove la linea tesa ad una progressiva applicazione del bilinguismo nel comparto scolastico veniva abbandonata in favore di una tutela della francofonia più marcata.
Due furono i progetti di legge in punto (il primo del 1983 ed il secondo del 1984) entrambi respinti dall'organo di controllo per una asserita incompetenza in materia, poi ampiamente superata dalle norme di attuazione del 1989.
I progetti non furono più ripresi, ma di quelle iniziative rimane traccia di una volontà del legislatore regionale di scelte non omologanti.
Uno spirito che, nel necessario ripensamento del sistema di istruzione e formazione regionale, dovrà essere tenuto nella debita considerazione.

Vincenzo Scipioni
Consulente legale del Dipartimento Sovraintendenza agli Studi della Valle d’Aosta (2000-2003).
Dal 2004, Consulente giuridico per la Fondazione Professionale e Turistica di Châtillon.


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