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Presenza, uso e funzioni dell'orale nella società e nella scuola

Mentre nella società odierna l’oralità ha una posizione assolutamente centrale, nella scuola ha un ruolo da Cenerentola. Ricerche psicolinguistiche hanno dimostrato che l’interazione verbale fra pari agevola anche l’apprendimento di nozioni. Occorre allora che i docenti si costruiscano una competenza che tenga conto del peso dell’oralità e della grammatica implicita dei giovani.

Prima di parlare dell'oralità nella scuola sembra corretto dare uno sguardo alla presenza, all'uso e alle funzioni dell'orale nella società. In fondo, il potenziamento dei saperi va realizzato non in astratto, ma in concrete situazioni di competenze e usi della lingua con i quali bisogna confrontarsi, prima durante e dopo ogni progetto di potenziamento.
Nell'odierno repertorio linguistico italiano, com'è noto, coesistono diverse varietà di lingua: varietà geografiche, contestuali, sociali, ecc. Le varietà di scritto/parlato sono fra le più importanti, ma, curiosamente, proprio l'abilità del parlare - e quella simmetrica dell'ascoltare - sono le più sottovalutate, sia nella ricerca che nella didattica dell'italiano.
Sul piano della ricerca, non è un caso che le varietà di scritto e di parlato - che chiamiamo 'diamesiche', in quanto sono legate al mezzo di trasmissione del messaggio - siano entrate per ultime nell'elenco delle varietà di italiano(1).
Il linguista, come ogni studioso, soffre di strabismo diamesico: la sua formazione scientifica si è fatta tutta su testi scritti, e la sua massima implicita è 'verba volant, scripta manent'.
Gli esempi sono innumerevoli: basti pensare che a tutt'oggi gli studi più accreditati sull'italiano popolare - che è una varietà soprattutto parlata, con testimonianze scritte molto marginali - sono quelli che hanno utilizzato corpora di testi scritti: lettere di semianalfabeti, scritte sui muri, ecc. Lo scritto dà sicurezza, si può aggredire con strumenti collaudati, ha un'organizzazione più semplice. Ancora adesso sono molto più numerosi i linguisti che si arrovellano su un frammento di scrittura - spesso con ardite procedure divinatorie - di quelli che riflettono sulle produzioni linguistiche che in flusso torrenziale si producono quotidianamente intorno a loro. Ovvia conseguenza: all'inizio del terzo millennio sappiamo ancora poco, pochissimo sulle strutture e sulle regole dell'oralità.
In compenso, se osserviamo il comportamento dei giovani in mezzo ai quali viviamo scopriamo che l'oralità ha una posizione assolutamente centrale: anzi, guadagna ogni giorno nuove posizioni rispetto alla scrittura. Sarà per il predominio assoluto del modello televisivo - ovviamente orale - rispetto ad altri ormai obsoleti, sarà per l'incremento vertiginoso delle occasioni di incontro e di socializzazione che si realizzano attraverso la parola parlata, sarà per la perdita di prestigio di fonti normative basate sullo scritto (appunto, la scuola), sarà perché nella comunicazione telematica e multimodale prevalgono stili cognitivi diversi da quelli tipici della scrittura, sta di fatto che l'organizzazione stilistica, grammaticale, discorsiva del parlato oggi tende non solo ad affermarsi, ma ad estendere il suo dominio sino a rimodellare l'organizzazione stilistica e grammaticale dello scritto. Non c'è qui bisogno di elencare esempi di scritture di studenti - persino universitari - modellate sul parlato: ogni insegnante ne conosce anche troppe. Direi che sono piuttosto la norma che l'eccezione.
Del resto, basta ascoltare i giovani 'con animo sgombro': salvo eccezioni, si formano (e si trasformano) più su testi orali che su testi scritti, e a quelli attribuiscono un prestigio maggiore. Non più 'c'è scritto sul libro' ma 'l'ha detto la televisione' (o, anche, 'l'ho sentito in giro'). Lo vedo nella vita di tutti i giorni: un terzo degli studenti che vengono da me nelle ore di 'ricevimento' vuole semplicemente la conferma di informazioni e avvisi che sono esposti nella bacheca del Dipartimento: li hanno letti, ma si sentono più rassicurati da una conferma verbale che da una dichiarazione firmata su carta intestata esposta all'albo ufficiale. Esattamente l'opposto di quello che accadeva presso gli incolti e i semicolti di mezzo secolo fa, che crescevano con il mito della 'carta', della parola scritta. Oggi la parola scritta è meno autorevole, meno amichevole; suscita più diffidenza: così, non c'è da stupirsi se strutture e movenze del parlato entrano sempre più nello scritto, se temi e riassunti scarseggiano di subordinate e abbondano di dislocazioni a sinistra e di frasi sospese, se le preposizioni sono ridotte nel numero e sovraestese nelle funzioni, se alcuni tempi verbali sono praticamente morti, ecc. È l'oralità che entra nella scrittura, con il diritto del più forte.
Questo è lo sfondo. Se in primo piano collochiamo la scuola, troviamo una situazione completamente diversa, come se fosse ambientata su un altro pianeta. Qui l'oralità ha un ruolo da Cenerentola. Un indicatore per tutti: in qualunque grammatica scolastica, fra le quattro abilità quelle che di gran lunga sono più sacrificate sono l'ascolto e il parlato; o sono assenti o sono trattate in modo cursorio, per dovere di completezza, con pochissime indicazioni didattiche.

Nel 1997, in una ricerca sugli apparati delle grammatiche scolastiche, si è rilevato che le pagine dedicate alla teoria e agli esercizi sulle quattro abilità, nelle dieci grammatiche allora più diffuse erano così distribuite:
• scrittura 50,77%
• lettura 36,24%
• parlato 6,58%
• ascolto 6,41%
Quasi i nove decimi dello spazio erano dedicati alle abilità della scrittura, poco più di un decimo a quelle dell'oralità. Da allora non mi risulta che le cose siano cambiate di molto, anzi...
E non è finita. Passiamo al versante didattico. Quando un insegnante pensa all'oralità, a che cosa pensa? Di norma, al momento dell'interrogazione, alla capacità - richiesta all'alunno - di organizzare un testo orale che risponda ai requisiti di correttezza e di completezza necessari per rispondere in modo soddisfacente alle domande del maestro o del professore. Ma in realtà l'interrogazione copre solo una parte percentualmente insignificante del parlato in classe. Il tempo di gran lunga prevalente è occupato, in classe, dal parlato dell'insegnante, quando spiega e quando interagisce con gli alunni, dal parlato dei ragazzi, quando parlano con l'insegnante e quando parlano tra di loro, dal parlato del mondo esterno che entra in classe in mille modi (direttamente o, più spesso, indirettamente: i modelli a cui attinge il ragazzo sono altrove: in TV, in famiglia, nel gruppo di gioco...). Eppure, nella prassi didattica, si pensa quasi solo ai testi ben formati dello studente che, interrogato dall'insegnante, espone un testo letto a casa o risponde a domande dell'insegnante. Una limitazione nella limitazione: ci si occupa di un decimo (a dir molto) della produzione relativa a quel parlato al quale, come si è visto, i libri di testo dedicano un decimo della loro attenzione...
La proporzione di uno a cento dà forse un'idea concreta di quanto sia irrilevante oggi il posto dell'oralità nella didattica.
Ce n'è quanto basta per spostare la barra della didattica - non solo dell'educazione linguistica, ma di ogni didattica disciplinare - in una direzione che non escluda così pesantemente l'orale. Anche per un altro motivo, squisitamente didattico: parlando si impara, e si impara meglio. Ricerche psicolinguistiche non molto recenti ma attualissime(2) hanno dimostrato, ad esempio, che l'interazione verbale fra pari non agevola solo lo sviluppo di capacità linguistiche ma anche l'apprendimento di nozioni: "l'interazione fra pari produce maggiori conoscenze in ambedue gli interlocutori (anche indipendentemente dal livello di partenza) e costruisce quindi una situazione in cui si apprende, in cui si ragiona, in cui si pensa"(3).
Queste interazioni sono più produttive nelle scuole elementari e medie che nelle superiori, e richiedono l'uso di strategie apposite, nelle quali l'insegnante deve essere addestrato. Un esempio. Il docente organizza piccoli gruppi, ai quali assegna compiti che richiedono attività tipiche del parlato conversazionale strutturato: stimolare domande, definizioni, ragionamenti, discussioni finalizzate all'assunzione di decisioni, analizzare un problema, confrontare ipotesi, sintetizzare, generalizzare. L'insegnante non interviene attivamente nell'interazione ma ascolta, sollecita, stimola comportamenti: organizza la comunicazione, media, facilita. E l'oralità - che è la condizione 'naturale' in cui comunica un bambino - viene rivalutata, anzi acquista una posizione centrale nella vita scolastica, e diventa uno strumento fondamentale per lo sviluppo linguistico e cognitivo.
Ma anche lavorando sull'interrogazione - ad esempio riascoltando interrogazioni e analizzandole con gli strumenti della linguistica conversazionale - l'insegnante può prendere coscienza dei problemi fondamentali dell'adeguatezza sociolinguistica ed elaborare strategie che rendano più 'naturale', più efficiente - e più utile ai fini dell'apprendimento - quella strana forma di dialogo che è l'interrogazione(4).
Oltre a questa attività, funzionale all'incremento dei saperi, l'orale può essere utilizzato - ancora nella scuola media, ma anche nelle prime classi delle superiori - in altri modi, più squisitamente linguistici. Se il professore 'entra' negli scambi linguistici spontanei dei ragazzi, ascolta e osserva con gli strumenti adatti, può fare osservazioni utilissime per sé (per capire la genesi di molti 'errori' di lingua e operare di conseguenza interventi non generici ma mirati) e per gli alunni (per migliorare le loro prestazioni linguistiche). Ad esempio, scopre che è proprio nella prevalenza - e oggi nel prestigio - dell'oralità la causa principale di molti dei comportamenti linguistici più lontani dallo standard atteso: la difficoltà di pianificazione dei testi complessi, che dà luogo non solo a interrogazioni mal strutturate ma anche a testi scritti mal pianificati, frammentari; la persistenza di modalità sintattiche, lessicali, stilistiche, foniche e grafiche proprie del parlato informale, anche in testi scritti e in testi formali (anacoluti, intercalari ed esitazioni, eccesso di paratassi, salti stilistici, grafie oscillanti); presenza non giustificata di inserti dialettali, persino al livello sintattico. Capire i motivi, come tutti sappiamo, è il primo, decisivo, passo per un intervento corretto e ben mirato.
Ovviamente, il compito è tutt'altro che facile: si tratta di fare e di stimolare una riflessione sulla lingua che porti dalla presa di coscienza della variazione diamesica alle linee-guida di una modifica del comportamento linguistico (e già non è poco), utilizzando strumenti - di sociolinguistica e di analisi della conversazione - che ancora poche agenzie di formazione degli insegnanti sanno fornire: e forse questo è il vero problema.
Ironia della storia, per molti versi siamo tornati come ai tempi dell'Italia analfabeta: l'oralità è la condizione naturale, il punto di partenza dal quale muoversi per costruire un minimo di competenza soddisfacente per gli usi più complessi, gli usi scritti, gli usi formali della lingua. E allora bisogna di nuovo partire - come allora, più di allora - non dalla grammatica teorica ma dall'uso concreto della lingua per arrivare, nelle scuole superiori, ad obiettivi più avanzati: "occorre muovere dal vissuto, non dall'insegnamento della grammatica esplicita, formale, ma dall'esperienza e dall'arricchimento di quella implicita, e utilizzare l'esplicita solo quel tanto che serva all'allievo per ampliare le sue capacità di produzione e produzione. E quel tanto diventa, dovrebbe diventare davvero tanto, un solido studio di elementi di grammatica scientifica e di tecniche testuali nelle suole medie superiori e nelle università" (5) .

Alberto A. Sobrero
Ordinario di Linguistica italiana dal 1975, già presidente della Società di linguistica italiana e Rettore dell'Università di Lecce. Autore di numerosi studi di linguistica italiana, dialettologia, educazione linguistica e sussidi didattici; condirettore e collaboratore di "Italiano e oltre".
Membro attivo del GISCEL (di cui è stato segretario nazionale e regionale).

Note

(1) Si considera come punto di partenza l'articolo di A.M. Mioni, Italiano tendenziale: osservazioni su alcuni aspetti della standardizzazione, in AA.VV., Scritti linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pacini, Pisa 1983, pp. 495-517.
(2) Ad esempio C. Pontecorvo, M. Pontecorvo, Psicologia dell'educazione. Conoscere a scuola, Il Mulino, Bologna 1985; D. Bertocchi, M.R. Del Buono, Apprendere parlando, in GISCEL Lombardia (a cura di), Imparare parlando, Milella, Lecce 1986, pp. 111-139; D. Bertocchi; Alberto A. Sobrero (a cura di), Speciale scuola / Parlato in classe, in "Italiano e oltre" 4 (1988), pp. 177-184.
(3) In Pontecorvo cit., p. 384.
(4) Si vedano le considerazioni - interamente condivisibili - di Annarita Miglietta in Interrogando s'impara (a parlare), in "Educazione linguistica", supplemento a "Italiano e Oltre" 5 (2001), pp. 28-32.
(5) T. De Mauro, Presentazione in F. Camponovo - A.Moretti (a cura di), Didattica ed educazione linguistica, La Nuova Italia, Scandicci 2000, p. X.

 

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