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Passaggio di cattedra

Une page de la revue pour les lecteurs qui aiment la surprise.
Une page insolite qui se différencie des autres dont l’exigence est de catégoriser.
Une page qui touche aux émotions, aux opinions et aux curiosités.
Un “sac À dos” à ouvrir, à fouiller, à adapter sur le chemin de la pédagogie.

Circondato da un’ampia inferriata, quell’edificio di mattoni rossi che per anni mi ha lasciato del tutto indifferente, improvvisamente mi mette addosso un’inquietudine sorda.
Dai tempi del liceo, che qui aveva una succursale, non l’avevo più veramente guardato. Visto sì, centinaia di volte, ma sempre distrattamente. Indifferente, appunto. Più interessato - di quell’interesse mosso dall’invidia - allo spazioso parcheggio interno, proprio a due passi dal centro.
Due grandi cancelli consentono l’accesso a pedoni e ciclisti. Per entrare con l’automobile è necessario farsi riconoscere e solo allora il comando a distanza solleva la sbarra a bande bianche e rosse. Io, comunque, sono a piedi.
Alcune aiuole e un paio di alberi ambiscono ad ingentilire il cortile ingaggiando una battaglia estetica con le automobili parcheggiate e le loro chiazze d’olio bruciato sull’asfalto.
Devo rilevare che i risultati di quest’ambizione sono davvero scarsi.
Due scalinate di otto gradini ciascuna portano alle grandi porte a vetri, tappezzate di avvisi.
Il corso di Inglese - secondo livello - tenuto dalla professoressa Barzi avrà inizio il 27 settembre - ore 15 - aula magna. Risultati della prova di piena conoscenza della lingua francese per infermieri: Arvat Luigi - positif, Bennato Alberto - positif, Besso Angela - absente, Dertoni Maria Pia - négatif... I signori professori sono pregati di passare dall’entrata principale in modo da poter prendere visione delle circolari presso il gabbiotto dei bidelli.
Quest’ultimo avviso mi fa sorridere e, senza nessun nesso logico apparente, mi richiama alla mente quell’altro, che si legge spesso nei supermercati e che recita si avvisa la spettabile clientela che la merce esposta è protetta elettronicamente. Dove spettabile clientela è da intendersi come spettabili taccheggiatori. Forse il senso che il mio subconscio ha dato al messaggio è qualcosa del tipo nessuno pensi di sfuggire alle circolari. Vi toccano! Per quanto, a livello cosciente, io non abbia assolutamente nulla contro le circolari.
Il cuore mi batte un po’, ma la scelta del trasferimento - passaggio di cattedra - l’ho fatta io. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso? Che il cielo me la mandi buona.
Controllo che il portafoglio sia al suo posto, nella tasca posteriore destra, mi schiarisco la voce, deglutisco, con l’indice della mano sinistra sistemo gli occhiali sul naso - sono gesti scaramantici -, sospiro e supero la prima delle due porte a vetri che mi separano dal mio destino. Come sempre mi capita quando mi sento insicuro, ho la sensazione che mille occhi mi stiano scrutando con severità. Nella realtà, le due bidelle all’interno del gabbiotto che sta sulla destra dell’entrata sono piuttosto disinteressate a me e il solo segnale che ricevo da parte di una di loro è un accenno di sorriso.
Solo quando entro nell’atrio mi accorgo che il sorriso non era rivolto a me, ma a una persona alle mie spalle. Un altro bidello? Un prof? Un tecnico? Qualcuno di più misterioso? Comunque un fortunato che si muove perfettamente a suo agio, mi supera senza degnarmi di uno sguardo e si dirige con baldanza verso la scala di sinistra.
Di fronte a me, inequivocabilmente, la segreteria. Almeno nel mio immaginario, le segreterie di tutte le scuole d’Italia, viste dall’atrio, sono uguali. Spessi vetri - antiproiettile? -, e un minuscolo buco circolare collocato così in basso che anche il più basso dei sette nani lo troverebbe troppo basso. Pronto a inchinarmi per comunicare con una segretaria che auspico simpatica e sorridente, inizio a percorrere questi pochi metri. E come il suicida che tra il ponte e l’acqua del fiume rivede la sua esistenza, guardo scorrere dinanzi agli occhi immagini di quella che ormai è la mia vita precedente. La mia vita nella scuola media xxxxx.
Dove sono Lina, Marta, Francesco, Susanna e gli altri? Si sentiranno traditi? Dove sono i miei colleghi di tanti anni? Quante ore abbiamo passato insieme a progettare, programmare, discutere? Quanti caffè in sala insegnanti? Quante compresenze? Quante gite? Quante cene? Quanti collegi docenti?
Quanti collegi docenti? Quest’ultimo pensiero mi fa tornare sul ponte. Sorrido. Effettivamente, anche se è meno romantico, sono costretto a dirmi che - accanto a un numero incalcolabile di bei ricordi - certe cose non le rimpiango fin da ora. Non rimpiango certe rigidità burocratiche. Non rimpiango certi atti privi di sostanza. E, per dirla tutta, non rimpiango neppure certi colleghi.
Eccomi alla segreteria. All’interno tre persone sono chine ognuna sul proprio computer. Stanno lavorando, suppongo. A un certo punto, una di esse - segretaria? coadiutrice? capo dei servizi di segreteria? qualcuno di più misterioso? - alza lo sguardo che incrocia il mio.
Mi interroga con gli occhi. Sorrido. Sorride. Mi guardo rapidamente intorno. Sono solo da questa parte del vetro. Quel sorriso è proprio mio. Lo prendo e me lo tengo stretto.
Di cosa hai bisogno? Mi dà del tu! Mi sorride e mi dà del tu. Mi sento gratificato.
A quarant’anni suonati, in una scuola superiore della mia nazione, colmo d’orgoglio, una simpatica segretaria mi sorride e mi dà del tu. Sarà che ho bisogno di rassicurazioni, ma per me è un buon inizio.
Oh! Mi scusi tanto. L’avevo confusa con il professor Berloni. Mi dica pure. Il sorriso è sparito e anche il tu è sparito. Deglutisco. Non è un buon inizio, è un inizio normale.
Ho pensato per tempo a come esordire. Ho scartato sono il professor XX ecc., optando per un più modesto, ma comunque dignitoso, sono XX, ho avuto il passaggio di cattedra qui, vorrei parlare con il preside. Sono pronto a rispondere alla domanda che mi aspetto, sulle cause del mio trasferimento. A quarant’anni mi è venuta voglia di cambiare.
La segretaria che mi dà del lei non mi domanda nulla. Indica l’ufficio del dirigente, e sottolinea la parola dirigente - che? non lo sai che non si chiama più preside? -. Ringrazio e saluto. Prego. Buongiorno. Non posso davvero pretendere di più.
Il preside - d’accordo, il dirigente - mi sorride venendomi incontro con la mano tesa. Non ci sono abituato. In passato, in situazioni simili, mi è capitato di essere investito da un oceano di glacialità. Siamo soli in presidenza - in dirigenza? - e dunque questa stretta di mano deve essere proprio per me. E’ così, questa volta niente fregature.
Si accomodi. Mi accomodo. Mi presento. Si presenta. Aspetto che mi chieda ragione della mia decisione. A quarant’anni mi è venuta voglia di cambiare. Non me lo chiede. Pongo le domande che mi ero preparato, riassumibili nel concetto “Aiuto!”. Ricevo le risposte ai miei dubbi, riassumibili nel concetto “Non si preoccupi”. Di assegnazione alle classi e quant’altro parleremo in seguito, intanto io posso pensarci con calma. Per il corso di aggiornamento che mi interessa, devo chiedere in segreteria. Grazie. A presto e buon lavoro.
Uscendo noto una targa su una porta. Sala insegnanti. Decido di buttare l’occhio. Almeno nel mio immaginario, le sale insegnanti di tutte le scuole d’Italia, sono uguali.
Uno spazio più o meno ampio. Meno, di solito. Un lungo tavolo rettangolare con il piano orizzontale ricoperto di plastica verde tanto lindo e ordinato adesso, a scuola chiusa, tanto riboccante di fogli, foglietti e bicchieri usa - e - getta in corso d’anno.
Una ventina di sedie imbottite (per lenire le sofferenze di quelle di legno delle aule? E a quelle degli alunni chi pensa?).
Alcuni scaffali a cielo aperto. Sono quelli che contengono riviste abbandonate lì da almeno un paio di generazioni - fanno coppia con il gruppo di carte geografiche ammonticchiate in un angolo che perpetuano l’esistenza della gloriosa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche -, volantini sindacali che chiamano alla lotta - con moderazione -, e pieghevoli che raccomandano indimenticabili visite di istruzione nelle verdi valli irlandesi - a prezzi stracciati, of course -.
Due appendiabiti. Senza infamia e senza lode. Tuttavia insufficienti nel periodo invernale, cioè quando servono. Una bacheca in legno con le puntine metalliche schiacciate a fondo da qualche manona, che non le stacchi neanche con una carica di dinamite. Contiene la chiamata a raccolta per la cena di fine anno (passato) - Ci troviamo il 10 giugno alle 20.30 davanti a scuola o direttamente Chez Pierre. 50000 lire, bevande incluse.
Seguono firme (illeggibili) -, il verbale dell’ultimo Collegio docenti e le circolari della Sovrintendenza che non vengono fatte passare alla firma - di solito sono quelle che hanno a che fare con eventi culturali esterni.
E poi ci sono loro. I cassetti degli insegnanti. Ce ne sono di piccoli e di grandi. Di larghi e di stretti. Di lunghi e di corti. Ce ne sono in alto e in basso. A un ripiano o a due. In legno o in metallo. Con la serratura o senza. Con la serratura funzionante o rotta. Ce ne sono di cigolanti e di silenziosi. Di belli e di brutti.
I cassetti degli insegnanti. Lo specchio fedele delle gerarchie. Dimmi che cassetto hai e ti dirò chi sei. Ne adocchio uno senza etichetta, nella fila centrale, di medie dimensioni. Anonimo, come desidero essere io in questo momento. Me ne approprio, non senza una certa apprensione.
Ripasso allo sportello della segreteria. Penso che penseranno che sia un rompiscatole. Il corso di aggiornamento comincia domani, alle nove.
Adesso è domani, e sono le nove meno un quarto. Rieccomi nell’atrio. Non c’è ancora nessuno. Per forza, solo un pivello arriva con tanto anticipo ad una riunione convocata per le nove e che, quindi, non inizierà prima delle nove e un quarto. Per la terza volta stamattina, controllo che il portafoglio sia al suo posto, nella tasca posteriore destra, mi schiarisco la voce, deglutisco e con l’indice della mano sinistra sistemo gli occhiali sul naso. La mia ansia è a mille. Stamattina incontro i colleghi! Mi siedo in sala insegnanti e aspetto.
Le nove e dieci. Nessuno.
Le nove e un quarto. Nessuno.
Le nove e venti. Nessuno.
Le nove e venticinque. Una bidella.
Le nove e trenta. La stessa bidella.
Le nove e quaranta. La stessa bidella impietosita.
Scusi. Ma lei che ci fa qui? Vorrei risponderle a quarant’anni mi è venuta voglia di cambiare. Invece le dico che sono qui per il corso di aggiornamento sulla conduzione dei gruppi. Ah, ma i suoi colleghi sono già su da mezz’ora.
Mi faccio spiegare dove è su, ringrazio e vado su. Accidenti! Ho dimenticato che ci sono due entrate ed evidentemente non tutti i signori professori, pregati di passare dall’entrata principale in modo da poter prendere visione delle circolari presso il gabbiotto dei bidelli, lo fanno. Perfetto! In fin dei conti si tratta solo di entrare in un’aula con una ventina di insegnanti e un paio di esperti, in ritardo di un’ora - scarsa -, interrompendo quello che stanno facendo. E siccome gli esperti sono esperti di comunicazione, so già che troverò il gruppo sistemato in cerchio, che mi faranno un breve riassunto dello stato del corso, che mi verranno presentati i partecipanti e che sarò pregato di presentarmi. Se non altro, potrò finalmente dirlo. A quarant’anni mi è venuta voglia di cambiare.
Ecco la porta. Controllo che il portafoglio sia al suo posto, nella tasca posteriore destra,
mi schiarisco la voce, deglutisco, con l’indice della mano sinistra sistemo gli occhiali sul naso e busso. Chiedo scusa. Siedi, siedi pure. Osservate il grafico...
Mi siedo. I presenti osservano il grafico che la lavagna luminosa sta proiettando sulla parete. Sono disorientato. Osservo il grafico. In ascissa il tempo, in ordinata i costi. In cima al lucido un’intestazione. Il commercialista: una professione per il nuovo millennio.
Mi alzo, mi scuso nuovamente e me ne vado.
La porta giusta - spero - è un po’ più in là. Controllo che il portafoglio sia al suo posto, nella tasca posteriore destra, mi schiarisco la voce, deglutisco, con l’indice della mano sinistra sistemo gli occhiali sul naso e busso.
Non faccio in tempo ad accorgermene che sono seduto nel gruppo. Certe volte dà più ansia immaginare le cose, che viverle. Mi giustifico per il ritardo e, come previsto, mi si chiede di presentarmi. Potrei ben dire che a quarant’anni mi è venuta voglia di cambiare, invece di mi chiamo XX, insegno matematica, vengo dalla scuola media xxxxx. Ma è questo che dico.
Il gruppo torna al suo lavoro. Per il momento si tratta semplicemente di ascoltare l’esperto di turno. Mi posso guardare intorno con un po’ di calma. I miei colleghi sono tutte femmine. Questo mi piace, anche se a volte è difficile stabilire contatti più profondi. Le donne sensibili sono più sensibili degli uomini sensibili.
Ma quella la conosco! Abbiamo fatto le elementari assieme. Peccato che i miei ricordi di quel periodo siano così vaghi. Come si chiama già? All’intervallo la avvicino.
E’ vero! Con la maestra Viola. Ricordo che una volta mi hai tagliato una ciocca di capelli ma vedo che madre natura ha fatto giustizia. Si riferisce alla mia calvizie. Comunque mi rincuora e si dice disposta a darmi tutto l’aiuto possibile. Non sa quanto io apprezzi.
Riprendiamo il lavoro e a fine giornata posso sorridere. Il gruppo mi è piaciuto, me ne sono subito sentito parte e questo significa che qualcuno lo ha permesso, che mi ha accolto. Che posso volere di più?
Ciao, ci rivediamo il primo giorno di scuola.
Ok - penso - allora vi spiegherò che a quarant’anni mi è venuta voglia di cambiare.
Adesso è il primo giorno di scuola. Eccoli i veri protagonisti: gli studenti. Almeno nel mio immaginario, gli studenti di tutte le scuole d’Italia, sono uguali. Ma ce n’è uno che, ai miei occhi, è più uguale degli altri. E’ proprio lui, Silvestro. L’ho allevato alla scuola media, ma è roba di almeno otto anni fa. Lo avvicino.
Silvestro, sei qui? Ma non studiavi da geometra?
Eh! Prof, cosa vuole, a vent’anni mi è venuta voglia di cambiare!

Filippo Sergi
Insegnante di matematica

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