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Raggio di luce

Intervista a Massimo Ghirardi.

Massimo Ghirardi, atelierista1 dell’Istituzione Scuole e nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia, ci racconta un’esperienza relativa al linguaggio espressivo della luce, intrapresa con i bambini della Scuola dell’infanzia Martiri di Sesso2. La didattica del cosiddetto Reggio Approach è assai nota nel mondo ed è stata formulata, dalla fine degli anni ’60, dal pedagogista Loris Malaguzzi. Si caratterizza per un approccio educativo per progetti, attraverso i cento linguaggi che i bambini utilizzano nelle loro esperienze e per la grande importanza data all’ambiente educativo (anche architettonico) e alla documentazione dei processi educativi messi in atto.

Come avete proposto il tema della luce ai bambini?
Raggio di luce è un progetto di ricerca proposto ad alcune scuole dell’infanzia e primarie del Comune di Reggio Emilia. Pensandoci mi sembra che la seduzione che la luce è stata capace di suscitare nei bambini (e in noi) abbia rappresentato un motivo importante per la scelta, ma anche per la sfida che porgeva un linguaggio così difficile da padroneggiare.

Quali sono stati i vostri referenti scientifici e pedagogici?
Abbiamo organizzato un gruppo di lavoro, del quale facevano parte gli insegnanti, alcuni pedagogisti, tecnici e docenti universitari e che si riuniva periodicamente presso l’atelier del Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia. Insieme, abbiamo condiviso le varie esperienze e ragionato sullo spostamento di pensiero che queste hanno prodotto in noi e nei bambini, soprattutto in merito alla necessità di pensare e progettare i contesti per permettere ai bambini di sperimentare, ricercare e confrontarsi.
I luoghi di riflessione (termine quanto mai pertinente) però sono stati molti: gli incontri di auto-aggiornamento settimanale tra insegnanti, gli incontri con le famiglie, l’équipe di coordinamento dell’istituzione, il laboratorio allestito presso il Centro Malaguzzi, ecc.

Nelle scuole come avete organizzato il lavoro dei bambini?
Nella nostra scuola, dopo una progettazione tra insegnanti e con la collaborazione delle famiglie, si è predisposto uno spazio nell’atelier principale e nei mini-ateliers delle sezioni, caratterizzati da alcuni oggetti che potessero interagire con la luce e con alcune fonti luminose artificiali (torce, lampade, faretti, scatole luminose) messi a disposizione dei bambini, diventando così luoghi dedicati e costantemente disponibili per le loro ricerche intorno ai fenomeni luminosi. Si è avviato il lavoro con piccoli gruppi misti di 4 o 6 bambini al massimo, di 4 e 5 anni, accompagnati da un insegnante che aveva anche il compito di documentare il lavoro attraverso notazioni, foto e videoriprese. Uno dei componenti dei vari gruppi che si succedevano era incaricato di coordinare il gruppo seguente, una scelta che, nelle nostre intenzioni, intendeva facilitare il passaggio di informazioni tra i bambini.
Per iniziare, abbiamo rivolto loro alcune domande orientative: “Come si comporta la luce?”; “Gli specchi riflettono tutti nello stesso modo?”; ”Il raggio riflesso si può controllare?” ; "Si può disegnare con la luce?”.
Le scoperte dei bambini sul comportamento del raggio riflesso, in relazione alle diverse forme degli specchi, hanno permesso la creazione di forme sorprendenti, dinamiche, intrecciate che i bambini hanno definito fiori di luce con la volontà di dare un nome che fosse insieme metafora e contenuto, che attribuisse un’identità definita al fenomeno, che tenesse uniti gli aspetti scientifici con quelli espressivi in una variazione e sperimentazione continue.

Provi a fare un esempio.
Del riflesso, ad esempio, hanno cercato di comprendere e padroneggiare l’angolo di incidenza al fine di organizzare giochi di abilità e composizioni (una sorta di disegni di luce) a partire dal lavoro intrapreso in piccoli gruppi ai quali abbiamo affidato il compito di raccontare e spiegare agli altri amici della sezione. Per questo hanno dovuto approntare disegni esplicativi, formulare teorie e sequenze narrative, brevi comunicazioni scritte in relazione alle loro competenze linguistiche.
Un altro gruppo di bambini, dai 4 ai 5 anni, ha sperimentato dentro la scuola alcuni riflessi luminosi attraverso l’uso di alcuni specchietti dalle differenti forme posti davanti ad un faretto. La diversa inclinazione degli specchi, rispetto alla sorgente di luce permette di ottenere immagini particolarmente affascinanti, le leggo alcuni loro dialoghi:
Stiamo facendo dei riflessi interessantissimi!” (Caterina)
Come delle ragnatele” (Alice)
No, come dei fiori di luce” (Arianna)
Mentre i bambini discutono si accorgono anche delle relazioni tra la dimensione degli specchi, la distanza dal faretto, l’angolo di incidenza e di riflessione:
Secondo me se metto uno specchietto qui succede qualcosa…” (Rossella)
Si interrompe i raggi…” (Arianna)
Be’… facciamo delle prove… può darsi che scopriamo delle diversità… oppure delle altre composizioni…” (Rossella)
Ci vuole molta calma… perché questo è un lavoro difficile… è una cosa da sapienti!” (Michele)

Immagino che le scoperte avranno entusiasmato i bambini.
Al punto che hanno pensato di proporre agli amici rimasti in sezione degli indovinelli luminosi, come ad esempio:
• fare una strada di raggi riflessi;
• provare a fare una grande X con la luce;
• colpire dei bersagli con il raggio riflesso.
Prima di proporli ai compagni, è stato però necessario trovare le posizioni corrette degli specchi rispetto alla fonte luminosa e formulare alcune regole attraverso delle notazioni grafiche. La soluzione non è semplice, anche chi ha formulato la domanda sembra non riuscire a proporla. Samuel testimonia la sua perplessità:
Mah… ci deve essere qualche errore nel progetto [grafico]… aspetta che guardo bene… Ho capito! Le forme degli specchi sono sbagliate… proviamo con solo due specchi”.
I bambini sanno essere molto caparbi e, alla fine, riescono ad arrivare ad una soluzione accettabile.
I fenomeni si sono rivelati particolarmente suggestivi e forti, quindi facilmente condivisibili tra i bambini (tutti, anche quelli che sembrano stare in ombra), se ne è indagata insieme a loro l’identità, cercando di definire meglio alcune ipotesi sull’origine e sui meccanismi che sottendono al loro verificarsi in natura, a partire da una serie di conversazioni proposte a gruppi di bambini e cercando di intrecciare da subito i diversi linguaggi espressivi: grafica, scrittura, narrazione.

Una divulgazione che rende molto bene l’idea di un gruppo che ricerca sui fenomeni.
Abbiamo prestato molta attenzione all’aspetto della divulgazione tra bambini, creando spazi dedicati nell’ambiente dove raccogliere disegni, fotografie, schemi e teorie provvisorie, nonché le nostre osservazioni sul percorso che si andava sviluppando; riservando un tempo della giornata alle comunicazioni tra piccolo e grande gruppo allo scopo di costruire un sapere condiviso tra i bambini. Questi spazi possono rappresentare sia un’informazione per le famiglie sul lavoro svolto sia una traccia per la memoria e un suggerimento per possibili ulteriori approfondimenti.
Vedo molto della teoria socio-costruttivista nel vostro approccio, è così?
Certo: l’apprendimento è, secondo noi, un atto di costruzione che ogni soggetto compie nella relazione con l’altro, con gli altri. Sia i bambini sia gli adulti progrediscono nella conoscenza attraverso un processo che intreccia la dimensione individuale con quella di gruppo. Ci preoccupiamo di organizzare una didattica che proceda attraverso un rimando e un rilancio continui dal singolo al gruppo, dal piccolo al grande gruppo, dove si elabora, si ricerca per costruire un sapere comune e condiviso.

Mi può dire qualcosa di più del vostro atelier?
Nasce da un’idea di Loris Malaguzzi: uno spazio gestito da una figura insegnante con formazione artistica, che potesse portare bambini e insegnanti classici ad esprimersi attraverso tecniche e linguaggi generalmente riservati a situazioni particolari e privilegiate.
Fu una scelta coraggiosa, perché incideva (e incide) sui ristretti finanziamenti scolastici.
Riteneva, giustamente, che i linguaggi espressivi potessero intrecciare razionale e immaginario, emozionale e cognitivo, facilitando un apprendimento più ricco e completo. Basta cercarli e anche nella luce si possono scoprire aspetti poetici.
L’esperienza non è mai stata legata al luogo fisico e specializzato del laboratorio: tutta la scuola deve essere un atelier, inteso come uno spazio che sa trasformarsi, ripensarsi e provocare cambiamenti di modi di fare e di pensare in relazione alle identità che cambiano e alle esigenze di ricerca. La scuola deve sapersi organizzare in ambienti-contesti in cui è possibile lasciare tracce del proprio agire, che diventano “pensieri concreti” e consentono di poter ritornare sui propri modi di procedere per riflettere e commentare il come si sta conoscendo.
I linguaggi espressivi (musicale, plastico, poetico, visivo), le tecniche e i materiali diversi debbono entrare nella scuola per muovere contemporaneamente mani e mente, creare relazioni empatiche ed estetiche con le cose e il fare.
Uno dei contributi più evidenti dell’atelier alla pedagogia, come dice Vea Vecchi, grazie alla sua esperienza
di atelierista, è quello di aver promosso e favorito una documentazione didattica visiva, nonché di aver attribuito l’importanza che merita alla qualità architettonica, interna ed esterna, dell’ambiente scolastico3.

Se volessimo saperne di più?
Presso il laboratorio del Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia è stato allestito l’Atelier Raggio di luce a disposizione delle scuole del territorio, visitabile su appuntamento, e che sarà anche ospite, per il terzo anno, al Festival della Scienza di Genova. Inoltre, saranno disponibili le pubblicazioni della collana edita da Reggio Children srl e una sezione con questo tema della mostra itinerante Lo stupore del conoscere, attualmente in tour in alcune città del Colorado (USA).

La Redazione

Note
1 La figura dell’insegnante atelierista è caratteristica dell’organizzazione delle scuole di Reggio Emilia, che prevede, per ogni istituto, un insegnante con formazione artistica, nonché uno spazio dedicato alle ricerche artistiche ed espressive e denominato atelier (spesso integrato da mini-ateliers dentro alle singole sezioni). Massimo Ghirardi, nato a Parma nel 1968, diplomato in Arti grafiche presso l’Istituto statale d’arte Paolo Toschi della sua città, ha frequentato la facoltà di Psicologia dell’Università di Padova, si occupa di illustrazione per l’editoria e di grafica pubblicitaria, è conosciuto anche come disegnatore numismatico e araldico (su questo tema ha pubblicato anche diversi “stemmari” regionali, tra cui quello della Valle d’Aosta, e alcuni saggi). Dal 1992 è insegnante-atelierista dell’Istituzione Scuole e nidi di infanzia di Reggio Emilia. Si occupa di formazione per bambini e insegnanti, con particolare riferimento alla documentazione e agli approcci educativi attraverso i materiali e le tecniche espressive.
2 Sesso è il (curioso) toponimo di una frazione di Reggio Emilia, sede di una scuola e di un nido-scuola, parte del servizio dell’Istituzione del Comune.
3 Gia a partire dal 1970 Reggio Emilia ha abbandonato i modelli standard delle scuole sperimentando nuove forme architettoniche e materiali innovativi; ancora oggi le nuove strutture si caratterizzano per l’attenzione alla ricerca spaziale e all’impiego di materiali nuovi.

 

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