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Les mots pour le dire

Ho riletto, all’inizio dell’estate, un libro del 1948. 1984 di G. Orwell. Inutile dire che molti degli ultimi eventi esterni mi avevano spinto a farlo. Ho ritrovato Syme, un amico di Winston, il protagonista. "Syme era un linguista, si era specializzato nella neolingua e faceva parte di un’enorme redazione di esperti che stava preparando l’undicesima edizione del Dizionario della neolingua"1. Attraverso le sue parole Orwell ha catalizzato alcune mie riflessioni. "Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole, invece. Dozzine, ma che dico? Centinaia di parole ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso. [….] Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità del pensiero"2. Orwell aveva colto lo stretto legame esistente tra pensiero e parola e aveva individuato nella limitazione del repertorio linguistico un ulteriore strumento di controllo sociale.
Nell’ultimo capitolo del suo testo Pensiero e linguaggio, Vygotskij afferma che "i rapporti tra la parola e il pensiero... compaiono e si stabiliscono soltanto nel processo dello sviluppo storico della coscienza umana, essi stessi non sono la premessa, ma il prodotto dell’evoluzione dell’uomo"3; e ancora "Le ricerche fattuali mostrano ad ogni passo che la parola gioca un ruolo centrale nella coscienza nel suo insieme"4.
Quali parole dicono oggi l’universo dei nostri giovani?
Sms, chat, forme di comunicazione più abbreviate e allusive che sintetiche, amplificate e legittimate da video e spot frammentati e veloci a quale passaggio evolutivo ci stanno portando?
Con un po’ più di spregiudicatezza avrei potuto intitolare questa mia riflessione "Che palle!".
È questa, infatti, l’espressione che attraversa e unifica il mondo giovanile, che rimbalza anche tra gli adulti e sembra omogeneizzare la nostra realtà di cittadini medi di un paese industrializzato e ricco. Può sembrare povertà lessicale quella che porta a reagire ad ogni forma di frustrazione con le stesse parole, può sembrare un’anticipazione tragicamente realistica della neolingua ipotizzata da Orwell. In realtà, nel già citato testo di Vygotskij, è già presente un ulteriore approfondimento di queste osservazioni. Racconta Dostoevskij nel suo Diario di uno scrittore come sei ubriachi, rilanciadosi sempre la stessa parola (evidentemente simile a quella contemporanea cui faceva riferimento poco sopra), riuscissero in realtà a comunicare in modo compiuto pensieri e sentimenti complessi. "Questo è possibile quando l’intonazione trasmette il contesto psicologico interno di chi parla, all’interno del quale soltanto si può comprendere il senso di una data parola". L’ipotesi orwelliana, dunque, è ancora lontana: siamo solo in presenza di una caratteristica del linguaggio orale che, qualora gli elementi prossemici facilitino la trasmissione del contenuto del pensiero, si abbrevia e si semplifica. Fenomeno conosciuto, dunque, non preoccupante. Ma una scuola attenta al benessere dei suoi allievi e, di riflesso, a quello dei suoi insegnanti, quali indicazioni può trarre da queste considerazioni? Ad esempio riflettere sull’importanza della lingua come elemento di crescita sociale e individuale, su come "il pensiero trasformandosi nel linguaggio si riorganizza e si modifica"5.
Di fronte agli episodi di violenza, su minori e non, attuati da giovani, qualcuno ha parlato di "anafettività", di "analfabetizzazione affettiva" e, tra i rimedi suggeriti, si è parlato di intensificare l’ascolto. Per gli adulti, per gli educatori è forse difficile, oggi, decodificare appieno i messaggi di disagio dei giovani, l’espressione, così sovente reiterata cui facevo riferimento prima, non sempre ci dice tutto.
Forse la scuola dovrebbe veramente offrire le parole per dirlo. Educare a raccontare e a raccontarsi il disagio, creare piste di analisi in profondità del malessere può aiutare ad allontanarsene. Da un parlato fortemente contestualizzato e di getto che abbisogna di un ascolto-accoglienza si può arrivare, rallentando il ritmo dell’esposizione imparando ad articolare lessico e sintassi, ad un linguaggio ordinatore di emozioni e di pulsioni che fa crescere in consapevolezza ed intenzionalità. Scandagliare il disagio, trovare le modalità per raccontarlo può aiutare.

Bonne école !

Giovanna Sampietro

Note
1 G. ORWELL, 1984, Oscar Mondadori, 1973.
2 Ibidem
3 L. VYGOTSKIJ, Pensiero e linguaggio, Laterza, 1992.
4 Ibidem
5 Ibidem

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