BENI CULTURALI
L'incapacità di immaginare il futuro sta alla base della crisi della cultura progettuale della nostra epoca.
CULTURA E PAESAGGIO
di Flaminia Montanari
Le Modèle rouge, René Magrite 1935.La vitalità di una cultura si rileva dalla sua capacità di produzione, cioè di ricerca e di realizzazione di nuovi modelli operativi; se guardiamo all'ambiente costruito (o più generalmente "antropizzato") ci rendiamo subito conto della crisi della nostra cultura progettuale, ripiegata per lo più sulla rivisitazione di modelli tradizionali, diventati però "gusci vuoti" di una vita cambiata.
Riprodurre in serie casette "in stile valdostano" non costruisce un paesaggio coerente con quello tradizionale; stranamente, sembra che i pianificatori fatichino a capire che queste periferie urbane di finte case rurali nulla hanno a che spartire con il paesaggio tradizionale: basta guardare la quasi maniacale analiticità con cui si affannano a riempire i regolamenti edilizi di norme geometriche e stilistiche che dovrebbero garantire il "buon inserimento ambientale" delle costruzioni nel paesaggio per rendersi conto dell'alienazione della cultura progettuale. Nell'esperienza maturata in questi anni trascorsi nel settore della tutela del paesaggio, ho riscontrato che nella maggior parte dei casi quello che impedisce un buon inserimento ambientale del progetto sono due fattori: l'eccesso di norme urbanistico-edilizie e l'assenza, dietro l'involucro costituito dalla costruzione, di un modello o progetto sociale, di un'identità culturale di gruppo.
La crisi della progettualità ha le radici nella percezione, ancora in buona parte inconscia, della difficoltà di "dimensionare" l'intervento alla scala della sua reale incidenza; cioè, quanto più ci rendiamo conto che tutte le nostre azioni modificano l'assetto dell'ambiente in cui viviamo, tanto più ci sentiamo impotenti nelle nostre scelte. Pur senza che questo diventi oggetto di riflessione sul singolo atto, il concetto di "ambiente" ha ormai talmente permeato la nostra cultura da darci, in ogni gesto con cui operiamo sul territorio, la sensazione che esso andrà al di là delle nostre reali intenzioni, provocherà effetti non voluti o non ipotizzati non per sè stesso, ma per il suo inevitabile interagire, rafforzarsi o elidersi con altri gesti simili o disuguali, di cui non ci è dato di prevedere l'esistenza e il segno. Mancano cioè le condizioni al contorno, la visione generale che permetta di collocarci in una nozione dinamica di ambiente, inteso come processo di equilibri in costante trasformazione; i nostri gesti appartengono ancora, come categoria mentale, ad un'idea di continuum spazio-temporale che procede per somma lineare; il progetto (urbanistico o architettonico che sia) è ancora, nella sua pratica, considerato come la pennellata del pittore che aggiunge semplicemente un tocco o un punto di colore ad un quadro già delineato. Ma noi abbiamo in mano il pennello e non vediamo il quadro, perché la velocità e contemporaneità delle trasformazioni non ci permette di fissare l'occhio su un'immagine globale. Agiamo in un contesto che non percepiamo più come continuo, ma come discontinuo: questo è il risultato della mutata percezione del tempo nella nostra cultura.

Il villaggio di Triatel a Torgnon.In questa difficoltà, l'unico riferimento plausibile ci appare il passato, se non altro per il suo porsi di fatto, in maniera incontestata, quando ogni altra intenzione o dichiarazione di volontà sembrano oggi utopiche; così che mascheriamo dietro la rivisitazione di modelli tradizionali l'assenza di prospettive e la povertà di ricerca della nostra cultura. Al di là del risolvere dei problemi - peraltro abbastanza standardizzati - di quantità e articolazione di spazi interni, il progettista non ha altri riferimenti che quelli dell'eventuale "modello" propostogli dal committente stesso che arriva con qualche pagina di rivista di arredamento o di viaggi e pretende di avere un patio o un portico, un arco alla provenzale o un tetto alla svizzera, o di impiegare porte o finestre acquistate dall'antiquario; tra le norme igieniche, quelle urbanistiche e le voglie del committente il progettista si trova quindi costretto in una serie di strettoie in cui, onestamente, è già bravo se riesce a far sì che l'oggetto sia il più indifferente possibile al contesto, in modo da ottenere qualche effetto di mimetismo. "Nascondersi", "mimetizzarsi", sono diventati i presupposti che sembrano legittimare qualunque operazione architettonica: il volume di una stalla, equiparabile per le attuali esigenze della zootecnia a un capannone industriale, deve spezzarsi e articolarsi in un finto-villaggio oppure truccarsi con rivestimenti di materiali tradizionali: ma resterà sempre un volume non-tradizionale, che a fianco dei piccoli e raccolti edifici di un villaggio sembrerà un gigante a Lilliput, dichiarando apertamente la sua appartenenza a un'altra specie. La stessa logica di tutela ambientale che oggi andiamo perseguendo tende, più che ad evitare il danno reale all'ambiente, a contenerne gli effetti formali con "misure di mitigazione" che ci rassicurino che tutto, prima o poi, tornerà "come prima". Nulla torna come prima, al di là delle nostre illusioni; la sommatoria di casette "tradizionali" costituirà comunque un paesaggio nuovo e non-tradizionale, ritmato dal distacco dei 10 metri tra edificio e edificio, intervallato da muri di sostegno del pendio che fingono una somiglianza con i terrazzamenti agricoli in zone spesso mai terrazzate, la cui generatrice non è più l'aggregazione attorno agli assi viari ma piuttosto l'appoggio lineare ad essi, senza determinare così alcun punto centrale o nodale: un tessuto indifferente. Manca insomma, per orientare la progettazione, il senso del perché e del per chi si costruisce; potremmo dire che manca il presupposto stesso dell'architettura, il progetto sociale. Cioè la capacità di immaginare il nostro futuro. Distrutti o comunque ritenuti storicamente superati i modelli di relazione precedenti (demoliti dall'individualismo quelli sociali di famiglia, villaggio o quartiere, consumate le ideologie politiche, superate di fatto dalla globalizzazione le identità nazionali, in via di rapida trasformazione gli schemi di organizzazione del lavoro, messi economicamente in discussione i rapporti di solidarietà che sottendevano le politiche del welfare state), sembra che ci manchino i punti di riferimento per immaginare un nuovo modello sociale. Emerge un nuovo atteggiamento di "tolleranza" sociale, che di fatto esprime l'indifferenza e l'incapacità di scelta: ogni modello è buono purché non ponga limiti o richieste, purché non tocchi la mia sfera individuale, purché non mi costringa ad un confronto. Ma una società multietnica, una società pluralista, non solo tollerante ma capace di capire la diversità come ricchezza e capace di trarre vantaggio dalle specificità culturali non vuol dire una società che "somma" e accosta acriticamente le culture, ma piuttosto un crogiolo in cui si fonde e affina, nel rispetto delle diversità, un nuovo assetto sociale. Che potrà comprendere, accettare e integrare le istanze culturali più diverse, ad un unico patto: che venga rispettata quella cultura del territorio" che è il vero portato storico di fondo della cultura tradizionale: cioè il rispetto, pur nella ricerca di nuovi assetti, di un equilibrio con le risorse ambientali. Il progetto fa della storia un supporto, non un vincolo; il vincolo è invece nel territorio: perché bisogna che ci togliamo di testa l'idea che sia stato l'uomo a plasmare il territorio - è il territorio che ha plasmato l'uomo. E questo i popoli della montagna lo sanno bene.

   
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