EDUCAZIONE AMBIENTALE
A partire dall' "école buissonnière" di nove anni fa, l'educazione ambientale nelle scuole della Valle d'Aosta ha visto una vera esplosione. Come impostarne il futuro?
EDUCARE PER L'AMBIENTE
di Ugo Venturella
Uscita didattica nel Parco del Gran Paradiso.Due semplici parole "I care", una frase, forse un nuovo modo di intendere per il
futuro che cosa vorrà dire educare all'ambiente (o meglio per l'ambiente). Tuttavia è necessario, prima di affrontare questo tema, perno fondamentale sul quale far ruotare le attività di educazione, conoscere per sommi capi il bilancio del lavoro svolto dall'Assessorato in questi anni: le idee, le metodologie, i numeri, gli errori.
E' nel 1989 che ufficialmente nasce l'Ufficio di didattica ambientale (il termine didattica sarà poi sostituito con quello più confacente di educazione) con un progetto denominato "L'école buissonnière", dal fervido e convinto impegno di un educatore e di un sottufficiale del Corpo forestale. A questo primo nucleo si affiancheranno in seguito un veterinario, una biologa e un insegnante elementare. Le attività consistono soprattutto in proiezioni di diapositive, uscite guidate sul territorio e al Museo di Scienze naturali di Saint-Pierre, produzione di filmati e di originali pièces teatrali ad impronta naturalistica. Col passare degli anni le attività e le richieste subiscono un forte incremento fino ad arrivare a coinvolgere nell'anno scolastico 96-'97 il 58% degli alunni della scuola materna, il 35% di quelli delle elementari e il 31% degli studenti delle medie, per un totale di circa 3940 alunni.
E' innegabile che questi dati rappresentano il risultato di un lavoro costante e produttivo, segno tangibile di una realtà oramai ben consolidata nella nostra regione, ma allo stesso modo potrebbero generare eccessiva sicurezza e facile ottimismo: in sintesi dobbiamo chiederci se i successi ottenuti siano incontrovertibilmente sovrapponibili agli obiettivi propri dell'educazione ambientale.
Vi sono essenzialmente due campi di indagine, di lavoro e di ricerca. Il primo è parte di un complesso processo di costruzione dell'educazione ambientale, esso indaga, mette a confronto e sperimenta i modi di "fare" educazione ambientale.
Ecco allora fiorire tutta una serie di intelligenti contributi che permettono la crescita del dibattito. Per citare i più recenti, le sei condizioni per la riuscita dell'educazione ambientale, sintesi del documento finale di un recente convegno delle associazioni educative francesi: modi diversi di apprendere, dimensione trasversale, lavoro di équipe attorno ad un progetto, apertura a partner esterni (nella chiarezza dei rispettivi ruoli e nel rispetto del pluralismo e della laicità), continuità verticale lungo tutto il percorso di studi, formazione del personale educativo... Oppure l'interessante apporto di Jean Louis Colombies (CEMEA Toulouse), nel quale si afferma l'importanza vitale, di fronte all'eterogeneità del mondo della scuola, di una pedagogia variabile, in cui la varietà degli approcci pedagogici è essenziale. Allora si utilizzino, per quanto e dove possibile, tutti i tipi di approccio pedagogico: da quello sensoriale-sensibile-immaginario-artistico-estetico a quello scientifico-naturalistico-concettuale-sistemico per arrivare al pragmatico-comportamentale senza dimenticare quello ludico.
A questi si aggiunga l'affascinante ipotesi della cultura della cura, I care appunto. E' stato Vittorio Cogliati Dezza, uno dei maggiori esperti di educazione ambientale, in un convegno su parchi e scuola, ad utilizzare per primo questo binomio. Egli poneva l'accento sul significato dell'essere un paese moderno in un prossimo futuro. Sinteticamente veniva affermato che il concetto di modernità era intimamente correlato al concetto di miglioramento della qualità della vita.
Si indicava quindi il filo conduttore del percorso attraverso il quale l'area protetta doveva entrare e costituirsi parte integrante del sistema territoriale. Il parco come luogo di pianificazione partecipata dove il mondo della scuola poteva dare il suo contributo in competenza, in esperienze maturate, in ipotesi metodologiche. Scuola e parchi come luoghi anche di formazione, nei quali recuperare la cultura della cura, la cura di tutto ciò che ci sta intorno, anche e soprattutto in città, in aree ad alto degrado ambientale.
Veniva a tale proposito ricordato il contenuto della Dichiarazione di Fiuggi che poneva particolare attenzione alla cittadinanza attiva, dove l'educazione ambientale diventava elemento portante della cultura della cura, non prescindendo però dal radicamento nel territorio e dalle risorse locali.
Durante un'attività all'aperto.Ed infine l'individuazione, da parte di sempre più numerosi esperti, dell'educazione ambientale come educazione alla cittadinanza o di chi la identifica, in un contesto di progressiva mondializzazione spesso vissuta negativamente sul piano economico, sociale e culturale, come possibile vettore di un'idea di cittadinanza positiva: "L'Europa dei cittadini non si costruisce dimenticando i paesi in via di sviluppo: anche questa è educazione ambientale in una prospettiva di sviluppo sostenibile per tuffi".
Questa espressione, riportata a conclusione di una comunicazione di J.L. Colombies, permette di introdurre la questione relativa al secondo campo di indagine. Esso inizia con le prime esperienze di sensibilizzazione, di denunzia, di protezione e di salvaguardia del patrimonio naturale, per poi approdare all'affascinante concetto della sostenibilità dello sviluppo. Senza nulla togliere all'incalcolabile mole di esperienze, di lavoro, di aspirazioni e all'indubbio valore intrinseco che ha ancora l'idea di sostenibilità: non solo sviluppo tout court ma sviluppo con la capacità di progettare e pensare il futuro, è necessario sgombrare il campo da equivoci e pregiudizi con alcune riflessioni.
Il termine sviluppo è inteso, quando ci si riferisce al campo del benessere, del progresso, della giustizia sociale, dell'equilibrio ecologico, come sinonimo di crescita, slancio, estensione, espansione. Nel mondo occidentale poi, per indicare quei paesi che non hanno ancora raggiunto il livello economico proprio dell'America del Nord o dell'Europa occidentale, viene utilizzato il termine di paese sottosviluppato o, meglio, in via di sviluppo.
Il procedimento che quindi si applica, sia esso mentale che pratico (chi oserebbe negare che esistono progetti, superministeri, fondi, organizzazioni non governative per lo sviluppo?), consiste nel ritagliare e nel confezionare programmi (sincere e nobilissime aspirazioni dei più ovvero orribili speculazioni ed arricchimenti personali di pochi) secondo sistemi di riferimento belli e pronti - ma spudoratamente occidentali -, accusando poi tutto e tuffi (le strutture inadeguate, i governi corrotti ed inefficienti, le popolazioni pigre, l'ambiente inospitale, il clima inclemente) di fronte al loro fallimento. Tutto ciò è quotidianamente sotto i nostri occhi!
Ne consegue quindi che non è più lecito:
a. utilizzare impropriamente il termine sviluppo, meglio sarebbe quello di occidentalizzazione, esplicito riferimento al modello di origine,
b. sprecare caparbiamente immense risorse per esportare i nostri stili di vita e i nostri modelli di consumo,
c. ma soprattutto, credere ancora che il benessere della parte Sud del pianeta non sia interdipendente alla drastica riduzione - almeno di un terzo! - del nostro livello di consumo pro capite.

   
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