QUALITA' DELL' ABITARE
Vivere in montagna significa condividerne i valori, saperne riconoscere vantaggi e handicaps, fare del nostro ambiente una scelta di vita.
VALDOSTANI O TIROLESI?
di Flaminia Montanari
Il legame tra popolazione e territorio è molto più forte nelle aree di montagna che in quelle della pianura. In parte forse perché la montagna è un ambiente più fortemente caratterizzato, più ricco di connotazioni, cui non si può essere indifferenti: la popolazione di montagna sviluppa con il suo territorio una vera simbiosi, che si manifesta nell'attenzione con cui gli insediamenti si collocano rispetto alle risorse e ai fenomeni naturali, nella toponimia che documenta la reciproca identificazione del gruppo sociale con l'area occupata, nell'adattamento della struttura sociale alla gestione delle risorse e dei rischi.
Gran parte di questo patrimonio sociale, che è stato per secoli il fondamento di ogni cultura di montagna, è stato sgretolato dalla penetrazione di modelli urbani, nati da esigenze e culture economiche inadatte all'ambiente montano: si è costruito con le logiche della pianura, si sono disegnate infrastrutture non sempre congruenti con il terreno che faceva loro da supporto, si sono urbanizzate aree a vocazione agricola, e nella stessa agricoltura si sono a volte adottate, con l'idea dell'adeguamento a processi produttivi moderni, tecniche in contrasto con gli equilibri naturali.
Il risultato di tutto questo è stata una progressiva perdita di specificità della cultura di montagna; la tradizione viene spesso contrapposta alla modernità come un attrezzo inutile al confronto con la società contemporanea, e relegata nel folklore.
Ma quel complesso di cose che va sotto il nome di cultura altro non è che l'espressione dell'equilibrio tra una popolazione umana e il territorio su cui essa vive. Per esempio, le culture del nomadismo sono legate ai territori caratterizzati dalla bassa riproducibilità delle risorse, che costringono la popolazione a muoversi inseguendo la scarsa vegetazione e a non tornare sul posto prima che questa abbia avuto il tempo di riformarsi. Anche la cultura tradizionale della Valle d'Aosta può essere considerata sotto questo profilo come una cultura di nomadismo, nel momento in cui la stagionalità e la situazione altimetrica hanno costretto gli abitanti a organizzare lo sfruttamento agro-pastorale mediante un sistematico spostamento per fasce di quota, a seconda delle lavorazioni e dei raccolti possibili nei vari mesi dell'anno, e alla pratica della transumanza, riservando alle abitazioni permanenti il ruolo di rifugio invernale e di laboratorio per i lavori artigiani, unica possibile occupazione dei mesi freddi.
Un ballo tradizionale valdostano: la badoche.Oggi, in un ambiente montano che vive ormai fondamentalmente di turismo, la caratterizzazione del prodotto acquista un alto valore sul mercato: ed allora la tradizione viene rispolverata per creare immagine, non più come fatto di cultura ma come valore estetico, come la carta da regalo con cui si avvolge il pacchetto turistico. Abbiamo così assistito nell'ultima ventina d'anni ad una nuova ricerca di caratterizzazione, non più derivante da un rapporto organico tra la popolazione e la specificità del territorio, ma per così dire importata come un bene di consumo che al territorio viene soltanto sovrapposto. In particolare, colpisce come la Valle d'Aosta si stia tirolesizzando. All'interno della catena alpina il Tirolo è la zona che ha mantenuto forse più salda la sua immagine tradizionale, quella che nel mondo viene considerata l'immagine delle Alpi. Questo ha indotto in molte zone montane un adeguamento a questo cliché, gradito alla clientela turistica. Così da qualche tempo anche in Valle d'Aosta ai volumi essenziali, nudi, chiusi, pesanti e densi di ombre delle case rustiche tradizionali si vanno sostituendo volumi frastagliati, ricchi di esibite strutture in legno, di cornici e balconi decorati con trafori e intagli; e i tavolini dei bar e le camere d'albergo si rivestono di fioriti tessuti provenzali o tirolesi, che fanno tanto rustico. Ma tutto questo voler esibire una patente di alpinità va a scapito della vera cultura alpina, che pur nella sua unitarietà di problematiche ha prodotto una moltitudine di caratterizzazioni locali ben distinte. Da condizioni simili possono discendere soluzioni anche molto diverse: è proprio la fantasia e la capacità di adattamento che ha determinato questa varietà e ricchezza di soluzioni l'origine del successo evolutivo della specie umana. Questo è il motivo per cui il Delfinato non è uguale alla Valle d'Aosta, né alla Valtellina, né alla Carinzia, né alla Val Gardena, né alla Carnia. Ciascuna zona ha sviluppato modi diversi di affrontare problemi affini, modi strettamente legati alle differenze di clima, di territorio, di organizzazione sociale. Ciascuna ha una sua immagine che costituisce un patrimonio vivo e importante, e che non deve essere omologata a un uniforme messaggio pubblicitario.
Sono proprio queste differenze che rendono un luogo caratteristico agli occhi di un estraneo, e che fanno sì che la Valle d'Aosta sia riconoscibile dalle altre regioni alpine. Ma soprattutto ciascuna zona ha una sua proposta e un suo stile di vita, una storia, un sistema di valori e di riferimenti culturali e sociali che ne costituisce la principale e originale risorsa. Il rischio dell'importazione di modelli estranei non è quindi soltanto un problema estetico o di identità locale: esso non è che una spia della perdita di contatto tra popolazione e territorio: viviamo come se ci trovassimo in quest'ambiente per puro caso. I modelli di vita e i sistemi di valori non fanno più parte di un portato culturale capace di rapportarci all'ambiente in cui viviamo, ma ci sono forniti dalla pubblicità, dalla televisione, dall'ambiente urbano visto come unico universale modello di civiltà.
Lontana dal contrapporre a questo processo un localismo ripiegato soltanto in difesa, ritengo però che l'adesione e la partecipazione ad un progetto locale sia oggi la strada più proponibile per uno sviluppo autonomo ed equilibrato. A fronte di una cultura che sta emergendo a livello mondiale, che muove da un'acquisita coscienza della rilevanza delle azioni e comportamenti di ciascuno per la vita di tutti, si incomincia a comprendere che nessuno potrà risolvere i problemi affrontandoli nella loro dimensione globale - i milioni di uomini che muoiono di fame o di malattia non saranno salvati dall'ingegneria genetica né da un incremento di produzione di medicinali, ma da ritrovate condizioni di vivibilità ambientale e sociale che muovono dalla ricostituzione di rapporti equilibrati tra gli uomini, e tra questi e le risorse della terra che li ospita. In questa direzione ogni luogo e ogni popolo ha davanti a sé nuovi possibili traguardi.
Si capisce in questa luce come la difesa e la qualificazione dei prodotti locali faccia parte integrante di una politica di mantenimento di questo rapporto tra l'uomo e il territorio, rapporto che diventa stile e qualità di vita, e che fa dell'abitare in montagna una scelta storicamente ancora attuale e possibile.
Sempre a patto che questa sia una scelta condivisa e voluta e non una condizione subita. Per vivere in montagna ci vuole un'attrezzatura culturale, non basta mettersi in testa un cappello tirolese.

   
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